Approfondimenti

Titoli

Sosteneva un’amica su twitter qualche tempo fa che il titolo originale di un’opera dovrebbe essere tradotto fedelmente (Non ricordo se abbia usato l’espressione “alla lettera”, ma lo ritengo poco probabile.) Sta di fatto che, riflettendo su questa affermazione, sono riandato con la memoria a una serie di titoli di romanzi che ho tradotto, e sono arrivato alla conclusione che non sempre è possibile (o opportuno) tradurre un titolo “fedelmente”. Porterò qualche esempio.

pajaro_en_manoNel 2007 è uscito per la casa editrice e/o un romanzo dello spagnolo Juan Madrid il cui titolo originale era Un pájaro en la mano. Per i non ispanofoni: un pájaro è un uccello. Si può immaginare l’effetto di questo titolo tradotto letteralmente sul lettore italiano, il quale non è tenuto a sapere che allude a un refrain spagnolo: “Más vale un pájaro en la mano que ciento volando”, la cui consueta trasposizione italiana sarebbe: “Meglio una gallina oggi che un uovo domani”. Bene. Ma è plausibile un titolo come: Meglio una gallina oggi? Sconcerto del lettore, che in libreria ha preso in mano quello che gli è stato presentato come un noir. Soluzione? Essendo una storia di poliziotti corrotti, ho proposto Mele marce, a cui l’editore ha apposto un sottotitolo che non guasta e serve a chiarire ulteriormente di che cosa si tratta: “Marbella noir”.

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Roberto Arlt, Piccoli proprietari

 

Una sera Eufrasia, poco dopo aver cenato, disse a Joaquín, suo marito: «Sai? Ho l’impressione che quello che abita di fianco a noi rubi dei materiali al poveretto a cui sta costruendo la casa».

Joaquín la guardò di sbieco, cupo, con il suo occhio di vetro.

«E questa da dove la tiri fuori?»

«Perché oggi al tramonto è arrivato con il carretto carico di polvere di mattoni e coperto da sacchi, per nasconderlo».

«Non è possibile».

«Sì, perché ieri aveva delle piastrelle sotto il braccio, anche quelle avvolte in un sacco rotto. E si vedeva l’angolo».

«Allora… chissà!»

«Sì… me ne sono accorta anche quando aveva l’altro cantiere. All’inizio arrivava presto con il carretto, poi, quando stava per finire, molto più tardi, e sempre con il carretto coperto. Con quel materiale devono aver costruito una tettoia».

Taciturno, Joaquín ribatté: «Certo, così è facile costruirsi case e tettoie per fare invidia agli altri».

Poi non parlarono più. Cenarono in silenzio e l’occhio di Joaquín, commesso viaggiatore e piccolo proprietario, era immobile come l’altro di vetro.

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Io scrivo per essere felice

Nel suo recente Diccionario de autores latinoamericanos, frutto del lavoro di quindici anni, César Aira, il più prolifico e sorprendente scrittore argentino, non ha esitazioni e non ricorre nemmeno a una stilla d’enfasi nel definire Roberto Arlt, classe 1900, “il più grande romanziere argentino”. Del resto non è l’unico a pensarla così: prima di lui si erano dichiarati entusiasti ammiratori dell’opera di Arlt scrittori della statura di Juan Carlos Onetti, Julio Cortázar e Manuel Puig. Onetti, che gli era forse più affine per tematiche, ci ha lasciato questa enigmatica definizione dell’uomo: “Non so se sia stato un angelo, un figlio di puttana o un commediante, forse le tre cose insieme”. Cortázar dal canto suo, nella prefazione all’edizione delle Obras completas del suo connazionale, intimidito dal compito, annotava: “Se potesse leggere queste righe, Arlt mi spaccherebbe la faccia”. A testimoniare la persistenza di Arlt nelle lettere argentine, Ricardo Piglia, nel romanzo Respirazione artificiale(pubblicato da Serra e Riva, traduzione di Gianni Guadalupi), ne segnala l’importanza in un lungo capitolo dedicato al linguaggio letterario e sottolinea il passo decisivo da lui compiuto nel superare il baratro fra la lingua parlata e quella scritta: “Non c’è nulla che somigli allo stile di Arlt; non c’è nulla di altrettanto trasgressivo dello stile di Roberto Arlt”.

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Alla scoperta dell’iceberg Arlt

Bisognerà pure domandarsi prima o poi come mai la grande editoria italiana sia stata così ingenerosa o disattenta nei confronti dell’opera di Roberto Arlt: silenzio tombale sulla drammaturgia e sull’attività giornalistica1, fugaci apparizioni di una manciata di racconti2, sporadiche comparse dei romanzi: Il giocattolo rabbiosoI sette pazzi e I lanciafiamme;3 e fino a ieri nessuno si era mai accorto dell’esistenza di El amor brujo4 e non stiamo parlando di uno scrittore di “seconda fila”: per quanto discussa e perlopiù misconosciuta in passato, mentre l’autore era in vita, la figura di Arlt non ha cessato di crescere nella considerazione della critica, almeno a partire dall’appassionata difesa di Ricardo Piglia negli anni Settanta, fino alla “consacrazione” sancita da César Aira: «È il più grande romanziere argentino».5
Vorrei azzardare di sfuggita almeno due ipotesi sulla scarsa fortuna editoriale di Arlt in Italia: la sua estraneità al canone ufficiale argentino, rappresentato nella seconda metà del Novecento da Borges e Cortázar – per non parlare della sua distanza dal realismo magico –, e le sue posizioni politiche venate di individualismo anarchico, che non lo rendevano particolarmente appetibile per un’editoria di sinistra piuttosto ortodossa.

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Roberto Arlt, quello strano animale idiomatico

«Tutti gli scrittori che amiamo sembrano scrivere in una lingua straniera», parole di Proust che César Aira commenta così: «Credo che il senso della frase sia che, in realtà, ogni scrittore inventa una lingua straniera, che è il suo stile». Ecco dunque un buon motivo per amare Roberto Arlt, che in effetti scriveva in una lingua straniera, quella imparata in casa da bambino, dove né l’odiato padre prussiano né l’ipersensibile madre di origini italiane parlavano con scioltezza lo spagnolo.
Una lingua che era anche quella dei suoi compagni di disavventure – raccontate dal protagonista del suo primo romanzo, Il giocattolo rabbioso –, fatta di prestiti lessicali dall’italiano, ma soprattutto dai vari dialetti della penisola, dato che ben pochi dei numerosissimi emigrati italiani a Buenos Aires erano scolarizzati. Così troviamo termini come malandrinostrunssobagazza, e nelle sue cronache giornalistiche, le Aguafuertes de Buenos Aires, Arlt scrive a più riprese sull’origine italiana di diverse parole: furboberretínsquenun (per quest’ultima chiama in causa nientemeno che Dante). Non mancano nemmeno i francesismi; nei Lanciafiamme troviamo: mansardapoilus (per soldato semplice), e una puttana si rivolge al Ruffiano Melanconico con questa ingiuria: «Nom de Dieu, va t’en te faire enculer».

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