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El Palomar, la Nota introduttiva

El Palomar, letteralmente: la piccionaia, è un quartiere periferico della città argentina di La Plata, conosciuta anche come “la città delle diagonali”, per il singolare tracciato delle sue strade che disegna una scacchiera di rombi. La Plata dista una cinquantina di chilometri dalla capitale Buenos Aires, è abitata perlopiù da appartenenti al ceto medio, che convivono nel quartiere con strati sociali più poveri ed emarginati. E conta su due squadre di calcio maggiori, l’Estudiantes e il Gimnasia y Esgrima, in eterna competizione. Una competizione che spesso sfocia in scontri violenti fra i tifosi: quelli del Gimnasia sono in prevalenza di estrazione popolare, mentre quelli dell’Estudiantes appartengono soprattutto alle classi sociali più elevate, i cosiddetti chetos, i ricchi, quelli che vestono all’ultima moda, gli snob. Nel quartiere El Palomar sono inoltre attive diverse remiserías, agenzie private di noleggio di auto con conducente: un centralinista prende le chiamate e affida i viaggi ai guidatori in attesa.

È in questo microcosmo che si muovono i protagonisti del romanzo, tifosi del Gimnasia che militano nelle cosiddette barras bravas (le frange degli ultras manovrate dai politici, che le sfruttano per i propri interessi) e guadagnano qualche soldo – non molti, una volta detratta l’ingente quota che spetta all’agenzia – lavorando come autisti. È un lavoro duro, con turni di notte, senza un salario fisso a fine mese e senza alcuna prospettiva di ascesa sociale, e i ragazzi che vi si dedicano integrano a volte gli scarsi introiti con attività illegali come il traffico di droghe. Le loro passioni, oltre al calcio, sono lo sballo e la musica: adorano la cumbia villera, una versione locale della cumbia, in origine colombiana, e il rock del gruppo Los Redonditos de Ricota, tra le più famose e acclamate band argentine. Aspirano a diventare capi di un gruppo di tifosi e a guadagnare soldi facili per fare “il salto”: abbandonare finalmente il lavoro e darsi alla bella vita.

Con questi scarni elementi, l’autore costruisce un’epica del quartiere, con i suoi eroi: quelli che ce l’hanno fatta, diventando capi di un gruppo di ultras o rilevando l’agenzia dove lavoravano, e i suoi martiri: le vittime della repressione poliziesca e quelli che finiscono in galera. I protagonisti sono legati da amicizie viscerali, nate già nell’infanzia, che possono però risolversi nella delazione o nel tradimento. In questo universo prettamente maschile, le donne vengono idealizzate – le madri che si sacrificano, le ragazze oggetto di romantici amori adolescenziali –, oppure trattate alla stregua di occasionali compagne di piaceri. Come scrive il poeta Mario Arteca nel prologo all’edizione argentina: «Tutti questi personaggi formano uno scenario frattale, forse cubista, che ordina i fatti come se questi potessero essere parte di un’interpretazione, e non è così».

Si tratta di un vero e proprio romanzo corale – in meno di cento pagine! – nel quale la voce narrante, che apre e chiude il racconto, si limita a lasciare la parola agli altri protagonisti, ma anche a diverse figure secondarie, che pure parlano in prima persona. Ascolta le loro storie e i loro sfoghi, che tramite poche pennellate definiscono un intero quadro sociale, o toccano una vena lirica nel ricordare episodi del passato o nel confessare pene d’amore.

Ma la novità più sorprendente del romanzo è il linguaggio: un misto di argot degli ambienti marginali e di lunfardo: qualcosa di più e di diverso dalla semplice trasposizione del linguaggio orale e colloquiale. Il lunfardo, in origine, era diffuso nelle carceri, poi è entrato nell’uso popolare, soprattutto fra i giovani. Al giorno d’oggi sopravvive come una testimonianza di altri tempi: come qualcuno ha scritto, è «virtualmente estinto» (in proposito, ricordiamo una frase sarcastica di Roberto Arlt: «Io sono cresciuto per strada, non ho avuto il tempo di studiare queste cose»). Il gergo che sostiene molte pagine del romanzo è invece assolutamente contemporaneo, fatto di frasi catturate per strada, ma anche trasferite da altri contesti, o inventate, spesso di significato ambiguo. Si comprende facilmente che la traduzione di un linguaggio così originale e personale ha comportato qualche difficoltà. Attenuata dalla disponibilità dell’autore a sciogliere molti dubbi.

In Argentina la critica ha accolto favorevolmente El Palomar. Quintín, nom de plume di uno dei più rinomati critici latinoamericani, ha scritto che non è affatto «uno dei tanti esercizi nella letteratura dell’io che circolano in questi giorni, non particolarmente ambiziosi in materia di scrittura. È il contrario: questo romanzo breve e sofisticato, scritto a partire da un’idea alta e sperimentale della letteratura, va a fondo nel territorio della lingua». E lo scrittore Pablo Farrés, in un testo denso di riflessioni penetranti, accosta il libro a uno dei classici della letteratura argentina dell’Ottocento: «Il collegamento con il Martín Fierro [di José Hernández] non è fuori luogo. In fondo si tratta degli stessi problemi narrativi. Hernández (che appartiene all’élite che elimina il gaucho) non copia la voce del gaucho […] inventa una lingua che è anche un mondo con un’epica propria, una logica della violenza e del disastro. Con El Palomar è la stessa cosa […] è una nuova lingua, non l’imitazione canagliesca del letterato benpensante che dal suo luogo comodo si concede il diritto di parlare per l’altro. È la differenza fra creazione e rappresentazione. La prima implica libertà, la seconda impone la gerarchia di colui che può parlare in nome dell’altro che rimane muto».

Francisco Magallanes, classe 1981, è scrittore e editore. È nato a La Plata, tifa per il Gimnasia e ha lavorato per anni in una remisería. Conosce bene, dunque, il mondo ritratto nel romanzo, del quale tuttavia non ha inteso dare una rappresentazione rigorosamente realistica, documentale. Ha preferito invece lasciar prevalere l’invenzione, nello sviluppo della trama e nella caratterizzazione dei personaggi, così come nel linguaggio.

In un’intervista, alla domanda su quali siano per lui gli scrittori latinoamericani contemporanei più importanti, Magallanes fa i nomi dell’argentino Ariel Luppino, al quale il romanzo è dedicato, del messicano Mario Bellatin, e dell’uruguaiano Felipe Polleri. Sarà un caso, ma tutti e tre sono stati pubblicati in questa stessa collana. Ci si potrebbe arrischiare a parlare di una “confraternita” che non si basa su criteri generazionali o nazionali, ma che segna piuttosto l’emergenza di una nuova concezione della scrittura e della libertà creativa degli scrittori, in un mondo che sembra sempre più impegnato ad abolire tutte le libertà. E di questa comunità ideale (di questo «complotto spontaneo», direbbe Artaud) Magallanes fa senz’altro parte.

Colonna sonora

Colonna sonora per accompagnare la lettura del romanzo: La bestia pop e El infierno esta encantador della band più famosa del rock argentino: Patricio Ray y sus Redonditos de ricota (chiamati anche Los Redondos).

Inoltre, i pischelli protagonisti di El palomar ballano e sballano sulla pista della discoteca Milenio al suono della cumbia villera e viene menzionato uno dei gruppi più popolari di questo genere: i Meta Guacha.

Un altro gruppo celebre che viene nominato è Los Ratones Paranoicos

E quando uno dei protagonisti, in una delle scene finali, soffre una crisi di romanticismo, vuole ballare con l’amico una cumbia di Leo Mattioli

La passione calcistica per la squadra del Gimnasia in tutto il suo splendore: una sintesi (20 minuti) della partita che consentì alla squadra di salvarsi dalla retrocessione, dopo aver perso l’incontro di andata contro il Rafaela. Due gol decisivi furono segnati poco prima della fine della partita da Franco Niell, alto appena 1,50.

E infine (per ispanofoni), il racconto di un curioso episodio che vide protagonista Maradona: la storia della tartaruga zoppa.

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Il premio Formentor a César Aira

I membri della giuria del Premio Formentor de las Letras, Anna Caballé, Francisco Ferrer Lerín, Gerald Martin, Juan Antonio Masoliver Ródenas e il presidente Basilio Baltasar, riuniti a Siviglia, dopo aver valutato e considerato i meriti degli scrittori presentati dalla giuria, e tenuto conto del significato e del valore delle loro opere, hanno rilevato i risultati e le virtù letterarie dell’autore che riceverà il Premio Formentor de las Letras 2021.

Per l’incessante impeto narrativo, per la versatilità della sua interminabile testimonianza e per l’ironia ludica della sua fervida immaginazione, la giuria assegna il Premio Formentor de las Letras 2021 allo scrittore César Aira.

La struttura labirintica della sua opera è stata ritenuta un immenso crogiolo letterario per le figure della cultura popolare, i personaggi della finzione narrativa e i motivi visivi dell’Arte.

La scrittura di Aira adotta tecniche di cui il rigore, la freschezza e la fluidità ricordano la chiave jazzistica dell’improvvisazione artistica. Sulle strutture invisibili dell’ispirazione, l’autore costruisce scenari e voci che smuovono e alimentano la perplessità del lettore.

Le convenzioni spazio-temporali, paradigma che regola il mestiere dello scrittore, si presentano nell’opera di Aira come formalità secondarie, spesso sostituite da esplosioni e fulgori, tecniche e licenze al servizio di una dirompente inventiva.

È lodevole che la sua fertile creatività letteraria accolga le figure di un immaginario grottesco, surreale, oscuro e trasparente, sorprendente e sconosciuto, imprevedibile e inatteso. L’opera di César Aira conferma la certezza della tradizione romanzesca secondo la quale attraverso la letteratura si possono intravedere le vere possibilità dell’esistenza.

Il simulacro stilistico della sua coscienza letteraria fa dell’umorismo un settimo senso, della parodia, la più riverente delle adorazioni, e della finzione romanzesca, un monumentale elogio dell’ingegno umano. César Aira adotta i compromessi estetici dell’artista e dimostra un’incrollabile lealtà ai desideri più intimi dello spirito creativo.

Il racconto intrapreso da Aira a partire dalle prime pubblicazioni, il centinaio di romanzi scritti dall’autore argentino, la sua feconda e perseverante creatività, costituiscono un’audace favola del mondo postmoderno e confermano l’arte poetica di uno straordinario equilibrismo estetico: le sue continue variazioni letterarie hanno fatto della sua scrittura un’inesauribile fonte di godimento, piacere e stupore.

Per tutto questo, per i suoi meriti, i suoi risultati e le sue virtù letterarie, la giuria concede a César Aira il Premio Formentor de las Letras 2021.


Siviglia, 11 aprile 2021

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Le brigate

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi contro il lockdown (leggi: arresti domiciliari), ho scoperto che in Francia, dove Macron si frega le mani soddisfatto per essersi tolto dai piedi i gilet gialli, è partita un’iniziativa inquietante: è nata una task force di “investigatori sanitari” che impegnerà almeno 30.000 membri per scovare i “positivi” al Covid19, tracciare e avvertire i loro contatti e organizzare misure di segregazione. Altro che app più o meno volontarie: 700.000 test a settimana, e quando qualcuno sarà trovato “positivo”, a tutti i suoi contatti verrà chiesto di “isolarsi da soli”, in casa o “negli hotel requisiti a questo scopo”. Ma è stato il nome scelto per questa task force a farmi scattare in testa un campanello d’allarme e una rapida associazione mentale: “brigate”.

Le brigate, infatti, è il titolo di un romanzo dello scrittore argentino Ariel Luppino (classe 1985), pubblicato dalla casa editrice Arcoiris nella collana Gli eccentrici (traduzione di Francesco Verde e postfazione di Federica Arnoldi, euro 13), che avevo letto di recente anche nell’originale e che ha suscitato il mio entusiasmo. 

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Tradurre Ramiro Pinilla

Quando mi è stato proposto di tradurre La higuera (Il fico), di Ramiro Pinilla conoscevo solo Aquella edad inolvidable, storia di una promessa del calcio costretta ad abbandonare la carriera, che conserva però fino alla fine una grande dignità. Il libro era un regalo di un’amica e collega, grande estimatrice dell’autore, che da tempo me ne raccomandava la lettura.

Confesso che il numero di pagine di quello che è considerato il suo capolavoro, la trilogia di Verdes valles, colinas rojas, mi aveva spaventato, ma la curiosità era rimasta, anche perché – afflitto come sono da una concezione romantica della letteratura – provo un’immediata simpatia per gli scrittori che nella vita hanno fatto vari mestieri, che scrivono per autentica vocazione e non per rispettare scadenze, in perfetta solitudine, indifferenti ai maneggi delle conventicole editoriali. E Pinilla rientra a pieno titolo in questa schiera. Infatti ha lavorato come macchinista su una nave, poi in una fabbrica di gas e infine come redattore presso una casa editrice, mentre scriveva di nascosto e nello scarso tempo libero che gli lasciavano gli impegni familiari. Il che rende ancora più ammirevole la sua vasta opera: oltre venti romanzi e due raccolte di racconti. 

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Horacio Castellanos Moya, La serva e il lottatore

La serva e il lottatore, di Horacio Castellanos Moya (trad. di Enrica Budetta, Rizzoli, 252 pagg., 18 euro) appartiene a un gruppo di quattro romanzi – l’autore non ama la definizione di “saga” –, pubblicati fra il 2004 e il 2011, che ruotano intorno all’epopea della famiglia Aragón e inquadrano alcuni momenti cruciali della storia di El Salvador, come la sollevazione popolare contro il regime del dittatore Maximiliano Hernández Martínez del 1944 o la breve e cruenta guerra con l’Honduras del 1969. La trama si sviluppa nel giro di pochi giorni del 1980, alla vigilia dell’assassinio dell’arcivescovo Óscar Romero e dello scoppio della guerra civile che insanguinerà il paese fino al 1992, con oltre 80.000 vittime, opponendo i guerriglieri del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (Fmnl) a una serie di governi guidati da militari con l’attivo sostegno di Ronald Reagan e degli Stati Uniti. Divennero tristemente famosi gli squadroni della morte, che fecero scomparire migliaia di militanti di sinistra, e proprio un ex membro di questi gruppi paramilitari, Robocop, è il protagonista dell’unico romanzo di Castellanos Moya tradotto finora in Italia, L’uomo arma (La Nuova Frontiera, 2006): dopo la smobilitazione, diventa un delinquente comune. E non si è trattato di “casi isolati”: basti pensare che la Mara Salvatrucha – una delle bande più numerose, ramificate e crudeli della delinquenza organizzata che infesta il Centroamerica, alcuni Stati occidentali degli Usa e il Canada – è nata a Los Angeles proprio da espatriati salvadoregni.

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