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César Vallejo Amara antropologia dello sfruttamento, tra furore e utopia

«Morirò a Parigi con la pioggia / in un giorno del quale ho già il ricordo». Così scriveva il peruviano César Vallejo (1892-1938) in «Pietra nera su una pietra bianca», nella raccolta Poemi umani. Roberto Bolaño, in uno dei suoi romanzi più cupi, Monsieur Pain, ha raccontato a modo suo la morte del poeta, che avvenne in effetti a Parigi, di malattia e di stenti, attribuendola a un misterioso singhiozzo e a una cospirazione fascista.

Nel 2008 Gorée ha pubblicato l’opera poetica di Vallejo in due preziosi volumi curati da Roberto Paoli (1930-2000), uno dei suoi più importanti studiosi a livello internazionale. Con la pubblicazione lo scorso anno del racconto Favola selvaggia nella collana gli Eccentrici di Arcoiris, e ora del romanzoTungsteno per SUR (trad. di Francesco Verde), il lettore italiano può finalmente conoscere anche parte dei suoi scritti in prosa.

Nato in un paese della cordigliera andina, ultimo degli undici figli di una coppia formata da una sorta di «avvocato del popolo» di origini galiziane e da una donna di ascendenze indigene, il meticcio Vallejo è uno dei più grandi poeti del Novecento, e a comprovarlo bastano le raccolte Gli araldi neri eTrilce, insieme a quelle postume: Poemi umani e Spagna, allontana da me questo calice, in difesa della Repubblica spagnola. Dopo diversi tentativi di laurearsi in lettere, sempre interrotti per le difficoltà economiche e intervallati da varie esperienze lavorative – impiegato in miniera, insegnante, aiuto contabile in uno zuccherificio – che gli fanno toccare con mano la realtà dello sfruttamento, Vallejo si trasferisce a Trujillo e poi nella capitale Lima. Qui entra in contatto con l’intellettualità cittadina e stringe amicizia con José Carlos Mariátegui, il fondatore del Partito socialista peruviano. Nel 1918, anno in cui muore la madre, figura centrale nella sua vita e nella sua poetica, pubblica Gli araldi neri, una raccolta ancora caratterizzata dagli stilemi dell’estetica modernista ma nella quale affiorano già elementi di rottura di quella tradizione ormai esausta. Due anni dopo, ingiustamente accusato di aver aizzato un incendio e un saccheggio, viene incarcerato per quattro mesi; darà conto di questa triste esperienza nel volume di prose avanguardistiche Escalas mielografadas.

Ma è nel 1922, con la pubblicazione di Trilce, che la sua ispirazione si rivela in tutta la sua potenza e originalità. In una intervista concessa a un quotidiano madrileno nel 1931, alla domanda sul significato della parola che dava il titolo alla sua raccolta poetica, risponderà: «Ah, be’, Trilce non significa niente. Non trovavo nessuna parola degna di diventare un titolo, e allora l’ho inventata: Trilce. Non è una bella parola?». Inevitabile il confronto con «dada» e il dadaismo, anche se il rapporto di Vallejo con le avanguardie latinoamericane ed europee non fu lineare né scontato. Il libro venne accolto con molte riserve e con un certo stupore; del resto, si tratta di poesie piuttosto ermetiche, per le ardite scelte lessicali e la violenza cui è sottoposta la sintassi. Come ha scritto Roberto Paoli: «Fuori dalle coordinate degli affetti, il mondo si fa presente a Vallejo come caos e assurdo. È in questa zona di rifiuto o, peggio ancora, di enigmaticità inviolabile che il poeta ha adottato più largamente i modi dell’avanguardia, riducendone tuttavia il valore ludico e, anzi, accentuandone la carica rivoluzionaria, giacché, in questa particolare adozione, la tecnica avanguardistica viene assunta come corrispettivo formale di una visione scardinata e brutale, come il solo veicolo atto a rappresentare un mondo frantumato e capovolto, insomma come linguaggio della follia del reale».

Infatti Vallejo si distanzia dalle avanguardie europee su punti essenziali, che lo avvicinano piuttosto a un’altra figura di intellettuale attivo a Parigi in quegli anni: Antonin Artaud, e non solo per la dichiarata volontà di scrivere «per gli analfabeti», per l’espressività e la crudezza del linguaggio, ma per il peso che assumono nelle loro opere la sofferenza esistenziale e l’insurrezione del corpo e delle sue pulsioni, il rifiuto della sensualità – «Godere in ogni occasione e attraverso tutti i pori, ecco il centro delle loro ossessioni», scrive Artaud nel 1927 nel suo libello À la grande nuit ou le bluff surréaliste –, dei giochi linguistici fini a sé stessi e del vano ribellismo parolaio. «La ribellione non è possibile senza l’innocenza. Si ribellano soltanto i bambini e gli angeli», scrive Vallejo, che fa i conti con Breton e amici in una cronaca giornalistica del 1930 intitolata «Autopsia del surrealismo», dove sviluppa una critica delle scuole letterarie dei primi decenni del Novecento (espressionismo, dadaismo, surrealismo, futurismo…): «Mai il pensiero sociale si è frazionato in tante e tanto effimere formule. Mai ha sperimentato un gusto altrettanto frenetico e una simile necessità di stereotiparsi in ricette e cliché, come se avesse paura della propria libertà o come se non potesse prodursi nella propria unità organica». E stigmatizza il «vizio del cenacolo», così come Artaud aveva dichiarato: «Il surrealismo è morto per il settarismo imbecille dei suoi adepti».

Diversamente da Artaud, Vallejo negli anni Trenta aderì al marxismo, un marxismo sui generis, beninteso, vissuto soprattutto come anelito all’uguaglianza, alla giustizia sociale e alla solidarietà, che non reciderà le sue radici cristiane e umanistiche, né lo spingerà ad abdicare alla libertà artistica: «Come uomo, posso simpatizzare e lavorare per la Rivoluzione, ma come artista non è nelle mani di nessuno, nemmeno nelle mie, controllare la portata politica che può occultarsi nelle mie poesie». Di questa adesione al marxismo è frutto il romanzo indigenista-proletario Tungsteno, pubblicato a Madrid nel 1931. Se in Favola selvaggia, che rientra in qualche misura nella letteratura fantastica e racconta un dramma della gelosia e della follia incentrato sul tema del «doppio demoniaco», Vallejo offriva uno squarcio delle ancestrali superstizioni del mondo rurale andino, in Tungsteno elabora una drammatica visione della lotta di classe che oppone i padroni nordamericani delle miniere e i loro scagnozzi locali ai peones e agli indigeni soras, «arruolati» con la violenza e costretti al lavoro forzato, e traccia una differenza antropologica fra la visione del mondo di questi ultimi e quella dei loro aguzzini: «Senza far calcoli, né preoccupandosi per il risultato economico del loro operato, parevano vivere la vita come un gioco, in maniera spontanea e generosa. […] Il criterio economico dei soras era molto semplice: poter lavorare, come e dove gli era concesso, per assicurarsi il minimo indispensabile alla sopravvivenza. Il resto non gli importava». (I soras sono cronopios ante litteram, brutalizzati da una caterva di famas che si approfittano bestialmente del loro candore: funzionari statali, giudici, poliziotti, commercianti…) Come scrive Goffredo Fofi nella prefazione: «In una stessa ondata di furore e utopia, somiglia a molti altri romanzi di quegli anni che raccontarono disperazione e rivolta degli oppressi in più parti del mondo, e ha qualcosa in comune con i grandi romanzi della fede socialista o comunista». Ma il carattere didascalico e di propaganda, che ne fanno in qualche misura un’opera datata, sono ampiamente riscattati, oltre che dalla potenza delle scene – terribile quella dello stupro di gruppo di una giovane india ridotta in schiavitù –, da una partecipazione non esteriore di Vallejo al dramma degli indios. Come scrive ancora Fofi: «È la partecipazione diretta alla condizione e alla cultura india a maturare la vocazione di Vallejo, e a seguirlo nell’esilio europeo, parigino, come una piaga e una corona». E l’ostracismo subito per le sue posizioni politiche, che lo costringerà a una vita grama, vissuta in dignitosa povertà, non lo farà mai venire meno a uno dei suoi princìpi: «Se c’è un’attività di cui non si deve fare una professione, questa è l’arte».

 

(Pubblicato su Alias il 18 gennaio 2015 e poi sul blog di Sur.)

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