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Carlos Ruiz Zafón, un “escritor horendo”

Annunciato da tempo con grande clamore, è disponibile da qualche giorno anche in Italia l’ultimo faticoso parto di Carlos Ruiz Zafón, che promette di concludere quella che la casa editrice definisce “l’avventura editoriale più appassionante della letteratura spagnola contemporanea”, iniziata nel 2001 con la pubblicazione del best seller mondiale L’ombra del vento. Finalmente i suoi appassionati lettori sparsi in tutto il pianeta potranno farsi un’altra scorpacciata (928 pagine nell’edizione spagnola!) di ombre, penombre, tenebre, abissi – il tutto “infinito”, beninteso – e poi di interminabili corridoi – curvi, in salita –, tunnel, scale che salgono fino a perdersi… nell’infinito, e naturalmente il celeberrimo Cimitero dei Libri Dimenticati, dove fra qualche anno sarà possibile ritrovare anche quelli di Zafón. I suoi fedeli lettori (o forse solo acquirenti) ritroveranno, se ancora ricordano i nomi, i beniamini di tante avventure, più qualche new entry, e soprattutto quella Barcellona gotica di cartapesta che a quanto pare ha catturato il cosiddetto “immaginario collettivo”. Ma la memoria dei lettori è corta, la saga decisamente prolissa, così qualcuno ha pensato bene di approntare una mappa di Barcellona e di Madrid, e un grafico per illustrare i rapporti fra i vari personaggi: http://image.casadellibro.com/documentacion/laminaZafon.pdf

Io attendo pazientemente di poter stilare una lista nera di critici e recensori che avranno il coraggio di incensare anche questo Il labirinto degli spiriti, e nel frattempo mi consolo rileggendo il lapidario giudizio di un autorevole critico spagnolo, Arcadi Espada – a cui si deve la definizione di “escritor horendo” – in occasione della pubblicazione di Il gioco dell’angelo:

Questo scrittore è un caso serio: a quanto pare ha venduto 10 milioni di copie della sua opera precedente, L’ombra del vento. Dieci milioni per 14,5 euro fanno 145 milioni di euro. Un bel giro di soldi.

Ignoro le ragioni del successo di Ruiz Zafón. Immagino che avranno qualcosa a che vedere con la scrittura, ma non capisco bene in che senso. Ho letto la presentazione del suo prossimo romanzo e la sua scrittura è molto scolastica, anche se, chissà come funziona adesso la scuola. Rispetto alla scrittura, tuttavia, è assai più interessante e significativo il frammento del nuovo romanzo pubblicato dal magazine:

«Una notte mi svegliai di colpo scosso da mio padre, che tornava dal lavoro prima del tempo. Aveva gli occhi iniettati di sangue e l’alito che sapeva di aguardiente. Lo guardai terrorizzato e lui palpò con le dita la lampadina nuda che pendeva da un cavo. “È calda.” Mi fissò e scagliò la lampadina con rabbia contro la parete. Andò in mille pezzi di vetro che mi caddero sulla faccia, ma non mi arrischiai a toglierli.»

Eccetera. È veramente brutto. Pessimo. Sette righe. Palpò con le dita, dichiara. Le lampadine sono di vetro, scopre. «Mille pezzi». «Fissò». «Iniettati di sangue». E questi poteri del ragazzo che in una stanza buia vede persino le venuzze negli occhi del padre. Il problema principale non è che Ruiz Zafón sia uno scrittore orrendo. Negli affari questo non è importante. La questione principale riguarda i suoi editori: che dopo essersi intascati all’incirca 70 milioni di euro con il suo primo libro non abbiano comprato al povero Zafón un’équipe di correttori o perlomeno un programma informatico di medio livello. L’incuria editoriale (che l’abbiano abbandonato con i suoi innumerevoli anacoluti e i suoi giulivi problemi di raccordo) è la cosa davvero sorprendente. A meno che l’incuria non sia proprio la causa del successo.

 

A seguire, la recensione che dedicai a Il gioco dell’angelo e che fu pubblicata a suo tempo da Pulp.

 

«Uno scrittore non dimentica mai la prima volta che accetta qualche moneta o un elogio in cambio di una storia. Non dimentica mai la prima volta che avverte nel sangue il dolce veleno della vanità e crede che, se riuscirà a nascondere a tutti la sua mancanza di talento, il sogno della letteratura potrà dargli un tetto sulla testa, un piatto caldo alla fine della giornata e soprattutto quanto più desidera: il suo nome stampato su un miserabile pezzo di carta che vivrà sicuramente più a lungo di lui. Uno scrittore è condannato a ricordare quell’istante, perché a quel punto è già perduto e la sua anima ha ormai un prezzo.»

Questo il malinconico incipit, finito pure in quarta di copertina nell’edizione italiana, dell’annunciato secondo best seller di Carlos Ruiz Zafón. Che uno degli scrittori più incensati e redditizi del momento si lasci andare a una confessione così disarmante mi fa quasi tenerezza… (nelle interviste perlopiù mi dà l’orticaria perché sputa scemenze: “Molti autori delle serie televisive sono i moderni Shakespeare, Dickens, Balzac. È tutta parte della stessa tradizione narrativa”).

Sì, Zafón, sei riuscito a spacciarti per uno scrittore di talento agli occhi di milioni di lettori e pure un a certo numero di impavidi (rispetto ai posteri) critici e recensori, e il sogno della letteratura ti ha garantito un tetto e la zuppa. (Standing ovation.) Da parte mia, che non ho letto L’ombra del vento e me ne vanto, dopo essermi sorbito il sequel sottoscrivo senza riserve l’equilibrato giudizio di un autorevole critico spagnolo: Zafón è uno “scrittore orrendo”. E il suo Il gioco dell’angelo un noiosissimo romanzo fallito. È sorprendente che un autore consacrato (che minaccia oltretutto di scrivere altri due tomi di questa saga, o sagra, grandguignolesca) riempia quasi settecento pagine con una trama che non è “complessa” ma balorda, debordante e sfilacciata, con personaggi che non sono altro che macchiette, situazioni ridondanti, descrizioni pedanti e confuse, macchinose e spente, e un’aggettivazione improntata ai più scontati luoghi comuni, che avrebbero richiesto vigorose sforbiciate da parte di un accorto redattore. Ci sono più “scale che salgono nella penombra”, porte che si aprono e si chiudono cigolando, stanze tenebrose, che nei Misteri di Parigi, più bottiglie e bicchieri, tavoli, sedie e poltrone – tutti rigorosamente inutili nell’economia generale del racconto, ennesima riproposizione del patto diabolico – che all’Ikea.

E la velleità di mixare tutti i generi “popolari”: poliziesco, sentimentale, thriller, fantasy in salsa new age (ma gli è scappata la mano col gotico), laddove mancano una ricostruzione accurata, senso della misura, ritmo narrativo, distanziamento parodistico o gusto per la citazione, dà l’impressione che Zafón abbia voluto scodellare un libro per un’editoria amnesica e per lettori analfabeti. E non scomodatemi Dickens, per favore.

Che questa roba sia destinata a diventare un best seller internazionale non dovrebbe stupire né scoraggiare gli appassionati di letteratura, che in queste faccende sanno a cosa attenersi e non si lasciano infinocchiare tanto facilmente: in fondo, un best seller è solo un libro che vende molto in poco tempo, dunque un’operazione di marketing ben riuscita, che c’entra con la letteratura? Checché ne pensi l’immodesto Zafón, per il quale “tutti i classici della letteratura, dalla Bibbia a Don Chisciotte, sono stati libri che vendevano molto”.

E poi, chissà che per una volta non abbia ragione lui a sostenere che i pregiudizi contro i best seller “sono il frutto di un’estetica degli anni 60 e 70”. Touché. Lo ammetto, sono uno “snobground”. Del resto, ognuno si sceglie l’estetica che vuole, se qualcuno ha soldi da buttare e tempo da perdere, può sorbirsi la tanto decantata “estetica gotica” di Zafón. Ma è avvisato: gli stanno rifilando fuffa.

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