Approfondimenti

Tutto sommato una nicchia è un posticino comodo

Ritrovo questa vecchia intervista (purtroppo non ricordo il nome dell’intervistatrice) che doveva essere pubblicata su una rivista universitaria. Alla fine non deve essere piaciuta – forse è poco “accademica”. Mi sembra però che abbia ancora senso e la pubblico qui, preceduta da un’introduzione.

Tutto sommato una nicchia è un posticino comodo
Intervista a Raul Schenardi sulla ricezione della letteratura latinoamericana in Italia
(marzo 2014)

Gli spazi dedicati alla letteratura latinoamericana nell’editoria italiana sono stati, fin dal secolo scorso, pochi e da certi punti di vista discutibili. Una certa regolarità, sebbene si parli di pochi autori e pochi titoli, nelle traduzioni italiane di autori latinoamericani si iniziò ad avere solo con gli anni Cinquanta; prima di allora si era potuto entrare in contatto con l’America Latina letteraria solo attraverso sporadiche traduzioni pubblicate in riviste letterarie del primo Novecento, che difficilmente riuscivano a rendere conto della dinamicità che iniziava a caratterizzare l’ambito letterario a sud degli Stati Uniti.

Questa prima fase di diffusione della letteratura latinoamericana in versione italiana può essere inoltre considerata più una diretta conseguenza dello svilupparsi degli studi sull’America Latina in ambito accademico che il risultato di un vero e proprio interesse letterario verso il subcontinente. Al di fuori delle iniziative universitarie, intraprese grazie all’appoggio di piccoli editori di prestigio come Guanda e Vallecchi, il circuito culturale stentò a riconoscere le capacità degli scrittori latinoamericani per molto tempo e si dovette aspettare il 1968, anno di pubblicazione della prima traduzione di Cent’anni di solitudine, per poter parlare di un effettivo interesse verso la produzione letteraria di un continente che fino ad allora era stato poco considerato negli ambiti della cultura di alto livello. Quello che le carte di archivio o l’analisi dei cataloghi delle case editrici di grandi dimensioni dimostra è come la letteratura latinoamericana non fosse in grado di convincere gran parte del panorama editoriale e culturale italiano del XX secolo, e questo fatto spiega, in parte, perché nonostante il dominio degli intellettuali editori e dell’idea di editoria di cultura gli autori ispanoamericani si ritrovassero spesso a essere estranei alle dinamiche del campo letterario, restandone ai margini, in una nicchia – che come sostiene Schenardi, ricorda anche la situazione editoriale attuale – che li vide sempre relegati a ruoli di secondo piano nelle scelte fatte dalle case editrici di maggiore influenza sul mercato1.

Anche dopo il 1968 l’interesse scaturito dal successo di Cent’anni di solitudine può definirsi come più che volubile. Da un lato sarà accompagnato spesso da interessi puramente ideologici e, dall’altro, rappresenterà l’inizio di una ricerca del magico e del surreale che non permetterà di riconoscere la qualità letteraria di molti libri ispanoamericani presi in considerazione per la traduzione o effettivamente tradotti. Questo atteggiamento è sicuramente causa di stereotipi che disturbano ancora oggi la ricezione della letteratura latinoamericana e che ne problematizzano la sua comprensione e contestualizzazione in versione tradotta.

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Anton Arrufat, L’avana mi parla

L’Avana mi parla. Quante volte il nome dell’Avana sarà comparso nel titolo di un libro? Se mi limito alla mia libreria, trovo fra gli altri: La trilogia sporca dell’Avana e Il re dell’Avana di Pedro Juan Gutiérrez, L’Avana per un infante defunto di Guillermo Cabrera Infante, Il nostro agente all’Avana di Graham Green e, rimanendo nel catalogo di Ventanas, Morte all’Avana di Rubén Gallo. Per non parlare di tutti i libri cubani ambientati nella capitale, romanzi o saggi che siano.

Ma L’Avana mi parla è un romanzo o un saggio? L’autore era un sostenitore della fusione fra i generi (o della loro definitiva uscita di scena) e dunque presentò La ciudad que heredamos (questo il titolo originale dell’opera, pubblicata a Cuba nel 2019) come un “libro”: né romanzo né saggio né diario né album di memorie, ma un po’ di tutte queste cose.

Per certi versi si tratta di un classico romanzo di formazione: il nipote è guidato dal nonno a conoscere l’Avana, e insieme tanti segreti della vita. Sono entrambi originari di Santiago e la scoperta della capitale, dei suoi luoghi storici caratteristici e degli angoli più nascosti, avviene camminando. A un certo punto il nonno propone addirittura, fra il serio e il faceto, la fondazione di un Ordine sulla falsariga di quelli medievali: l’Ordine dei Camminatori. Autentico psicogeografo, incarna fedelmente la figura e la filosofia del flaneur descritta da Baudelaire, teorizzata da Benjamin, praticata da Walser e poi sistematizzata dall’Internazionale Situazionista, verso la fine degli anni ’60. Guy Debord e compari proponevano un metodo per conoscere la forma in cui una città influenzava la psiche dei suoi abitanti (e viceversa) e suggerivano un’esperienza nuova, accessibile a chiunque: vivere più intensamente la città andando alla deriva, senza una rotta precisa, lasciandosi catturare dalla sua bellezza e rendendola più a misura d’uomo. Non a caso uno dei personaggi caratteristici della storia recente dell’isola è Andarín – l’appellativo è eloquente –, una sorta di Forrest Gump, un postino dell’isola nonché maratoneta che partecipò anche alle Olimpiadi negli USA. Camminava o correva accanto a un calesse o dietro un’auto per mettere alla prova la propria resistenza, senza sosta, e lo fece fino a prima di morire a ottant’anni.

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Op Oloop di Juan Filloy

Ricordo con precisione, malgrado siano passati parecchi anni, il primo romanzo che lessi di Juan Filloy: Caterva, nella bella edizione di Siruela del 2003: un volume di 400 pagine fitte, con un “Epilogo” di Mempo Giardinelli, uno dei suoi primi e più entusiasti ammiratori. Era il regalo di un amico, che dunque è il responsabile della passione nata in me per questo scrittore argentino. E così, piano piano (ma neanche tanto) mi sono procurato ¡Estafen!, La potra, La purga, Yo Yo y Yo, e naturalmente Op Oloop, la cui recente pubblicazione da parte dell’encomiabile e intrepida casa editrice Ago è l’occasione per queste note. (Complimenti alla traduttrice, Giulia Di Filippo, che ha fatto un lavoro pregevole.)

Devo ammetterlo: la lettura dei romanzi di Filloy è stata faticosa, o meglio, laboriosa. Erano numerose le indispensabili interruzioni per trovare sul dizionario il significato di un termine, e spesso non era sufficiente aprire quello della Real Academia Española: bisognava ricorrere a un dizionario di lunfardo, o talvolta a quello di francese, inglese, tedesco… viste le citazioni o i prestiti linguistici da queste lingue. (Frequenti anche le citazioni dall’italiano.) Per non parlare dei neologismi e dei calembour. Solo una seconda lettura, scorrendo più fluida, permetteva di cogliere, attraverso le bizzarre ma oculate scelte linguistiche, l’esattezza dei concetti e la bellezza delle immagini.

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Postfazione di “A caccia di conigli”

Caza de conejos reca in calce la data della stesura: marzo 1973, ma sembra scritto ieri, anzi… domani. Fu pubblicato per la prima volta soltanto nel 1982 in un’antologia: Lo mejor de la ciencia ficción latinoamericana.

Il lettore ha qualche motivo per essere perplesso: fantascienza? Lo stesso Levrero respinse la classificazione, così come l’appartenenza alla letteratura fantastica, e coniò la definizione di “realismo interiore” (un critico lo chiamò “realismo introspettivo”), eppure, a ben vedere, nei suoi racconti compaiono numerose ambientazioni e tematiche tipiche del genere. Per esempio, in Gelatina ci presenta un mondo invaso da una massa gelatinosa che travolge tutto, comprese le relazioni umane tra i sopravvissuti. Nel racconto La sombrilla, in seguito a sconvolgimenti naturali, scompare il mare. Los ratones felices inizia come una favola che ha per protagonisti gli animali (simpatici topolini e un leone beneducato) per trasformarsi – previa assunzione di certe pastiglie – in un infernale e allucinante distopia burocratica. Eccetera.

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El Palomar, la Nota introduttiva

El Palomar, letteralmente: la piccionaia, è un quartiere periferico della città argentina di La Plata, conosciuta anche come “la città delle diagonali”, per il singolare tracciato delle sue strade che disegna una scacchiera di rombi. La Plata dista una cinquantina di chilometri dalla capitale Buenos Aires, è abitata perlopiù da appartenenti al ceto medio, che convivono nel quartiere con strati sociali più poveri ed emarginati. E conta su due squadre di calcio maggiori, l’Estudiantes e il Gimnasia y Esgrima, in eterna competizione. Una competizione che spesso sfocia in scontri violenti fra i tifosi: quelli del Gimnasia sono in prevalenza di estrazione popolare, mentre quelli dell’Estudiantes appartengono soprattutto alle classi sociali più elevate, i cosiddetti chetos, i ricchi, quelli che vestono all’ultima moda, gli snob. Nel quartiere El Palomar sono inoltre attive diverse remiserías, agenzie private di noleggio di auto con conducente: un centralinista prende le chiamate e affida i viaggi ai guidatori in attesa.

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