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Anton Arrufat, L’avana mi parla

L’Avana mi parla. Quante volte il nome dell’Avana sarà comparso nel titolo di un libro? Se mi limito alla mia libreria, trovo fra gli altri: La trilogia sporca dell’Avana e Il re dell’Avana di Pedro Juan Gutiérrez, L’Avana per un infante defunto di Guillermo Cabrera Infante, Il nostro agente all’Avana di Graham Green e, rimanendo nel catalogo di Ventanas, Morte all’Avana di Rubén Gallo. Per non parlare di tutti i libri cubani ambientati nella capitale, romanzi o saggi che siano.

Ma L’Avana mi parla è un romanzo o un saggio? L’autore era un sostenitore della fusione fra i generi (o della loro definitiva uscita di scena) e dunque presentò La ciudad que heredamos (questo il titolo originale dell’opera, pubblicata a Cuba nel 2019) come un “libro”: né romanzo né saggio né diario né album di memorie, ma un po’ di tutte queste cose.

Per certi versi si tratta di un classico romanzo di formazione: il nipote è guidato dal nonno a conoscere l’Avana, e insieme tanti segreti della vita. Sono entrambi originari di Santiago e la scoperta della capitale, dei suoi luoghi storici caratteristici e degli angoli più nascosti, avviene camminando. A un certo punto il nonno propone addirittura, fra il serio e il faceto, la fondazione di un Ordine sulla falsariga di quelli medievali: l’Ordine dei Camminatori. Autentico psicogeografo, incarna fedelmente la figura e la filosofia del flaneur descritta da Baudelaire, teorizzata da Benjamin, praticata da Walser e poi sistematizzata dall’Internazionale Situazionista, verso la fine degli anni ’60. Guy Debord e compari proponevano un metodo per conoscere la forma in cui una città influenzava la psiche dei suoi abitanti (e viceversa) e suggerivano un’esperienza nuova, accessibile a chiunque: vivere più intensamente la città andando alla deriva, senza una rotta precisa, lasciandosi catturare dalla sua bellezza e rendendola più a misura d’uomo. Non a caso uno dei personaggi caratteristici della storia recente dell’isola è Andarín – l’appellativo è eloquente –, una sorta di Forrest Gump, un postino dell’isola nonché maratoneta che partecipò anche alle Olimpiadi negli USA. Camminava o correva accanto a un calesse o dietro un’auto per mettere alla prova la propria resistenza, senza sosta, e lo fece fino a prima di morire a ottant’anni.

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Op Oloop di Juan Filloy

Ricordo con precisione, malgrado siano passati parecchi anni, il primo romanzo che lessi di Juan Filloy: Caterva, nella bella edizione di Siruela del 2003: un volume di 400 pagine fitte, con un “Epilogo” di Mempo Giardinelli, uno dei suoi primi e più entusiasti ammiratori. Era il regalo di un amico, che dunque è il responsabile della passione nata in me per questo scrittore argentino. E così, piano piano (ma neanche tanto) mi sono procurato ¡Estafen!, La potra, La purga, Yo Yo y Yo, e naturalmente Op Oloop, la cui recente pubblicazione da parte dell’encomiabile e intrepida casa editrice Ago è l’occasione per queste note. (Complimenti alla traduttrice, Giulia Di Filippo, che ha fatto un lavoro pregevole.)

Devo ammetterlo: la lettura dei romanzi di Filloy è stata faticosa, o meglio, laboriosa. Erano numerose le indispensabili interruzioni per trovare sul dizionario il significato di un termine, e spesso non era sufficiente aprire quello della Real Academia Española: bisognava ricorrere a un dizionario di lunfardo, o talvolta a quello di francese, inglese, tedesco… viste le citazioni o i prestiti linguistici da queste lingue. (Frequenti anche le citazioni dall’italiano.) Per non parlare dei neologismi e dei calembour. Solo una seconda lettura, scorrendo più fluida, permetteva di cogliere, attraverso le bizzarre ma oculate scelte linguistiche, l’esattezza dei concetti e la bellezza delle immagini.

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Postfazione di “A caccia di conigli”

Caza de conejos reca in calce la data della stesura: marzo 1973, ma sembra scritto ieri, anzi… domani. Fu pubblicato per la prima volta soltanto nel 1982 in un’antologia: Lo mejor de la ciencia ficción latinoamericana.

Il lettore ha qualche motivo per essere perplesso: fantascienza? Lo stesso Levrero respinse la classificazione, così come l’appartenenza alla letteratura fantastica, e coniò la definizione di “realismo interiore” (un critico lo chiamò “realismo introspettivo”), eppure, a ben vedere, nei suoi racconti compaiono numerose ambientazioni e tematiche tipiche del genere. Per esempio, in Gelatina ci presenta un mondo invaso da una massa gelatinosa che travolge tutto, comprese le relazioni umane tra i sopravvissuti. Nel racconto La sombrilla, in seguito a sconvolgimenti naturali, scompare il mare. Los ratones felices inizia come una favola che ha per protagonisti gli animali (simpatici topolini e un leone beneducato) per trasformarsi – previa assunzione di certe pastiglie – in un infernale e allucinante distopia burocratica. Eccetera.

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El Palomar, la Nota introduttiva

El Palomar, letteralmente: la piccionaia, è un quartiere periferico della città argentina di La Plata, conosciuta anche come “la città delle diagonali”, per il singolare tracciato delle sue strade che disegna una scacchiera di rombi. La Plata dista una cinquantina di chilometri dalla capitale Buenos Aires, è abitata perlopiù da appartenenti al ceto medio, che convivono nel quartiere con strati sociali più poveri ed emarginati. E conta su due squadre di calcio maggiori, l’Estudiantes e il Gimnasia y Esgrima, in eterna competizione. Una competizione che spesso sfocia in scontri violenti fra i tifosi: quelli del Gimnasia sono in prevalenza di estrazione popolare, mentre quelli dell’Estudiantes appartengono soprattutto alle classi sociali più elevate, i cosiddetti chetos, i ricchi, quelli che vestono all’ultima moda, gli snob. Nel quartiere El Palomar sono inoltre attive diverse remiserías, agenzie private di noleggio di auto con conducente: un centralinista prende le chiamate e affida i viaggi ai guidatori in attesa.

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Poeta cieco

In uno scritto del Quadernetto delle Cose Difficili da Spiegare, il Poeta Cieco parla di un certo fatto accaduto di notte in un’istituzione conosciuta come la Cittadella Finale. Quell’edificio situato in periferia, dove rinchiudono forzatamente le persone colpite da malattie contagiose, fu costruito al fine di evitare che l’infezione si diffondesse nella popolazione. Lo scritto del Poeta descrive una società nella quale gli abitanti accettano volentieri la reclusione e molte volte rifiutano il libero arbitrio. Alcuni cittadini chiedono addirittura di essere confinati. Lo fanno perché dentro le condizioni di vita sono meno difficili che all’esterno, perché per far tacere le proteste suscitate da questo metodo, i reclusi sono dotati di vantaggi su cui non possono contare le persone sane. Molti dei confinati sono giovani con dipendenze, anche se nella Cittadella il consumo di droghe è proibito. Nel Quadernetto il Poeta Cieco parla del traffico di sangue infetto – che ricevono quelli che vogliono avere un motivo per essere internati – in cambio di consegne di anfetamine che vengono introdotte attraverso le maglie della rete metallica. La Cittadella Finale è circondata da una recinzione metallica che l’umidità ha fatto arrugginire. Durante la notte d’estate a cui si riferisce il Poeta Cieco nel Quadernetto delle Cose Difficili da Spiegare, un membro della Banda degli Universali si avvicina all’istituto insieme a uno dei suoi più vecchi cani da combattimento. Il Poeta chiama Banda degli Universali i gruppi di giovani nelle città industrializzate che il sistema relega nei sobborghi. Una volta che si trova davanti alla rete, l’Universale di cui parla il Poeta Cieco si toglie la maglietta, gli stivali militari e gli strettissimi calzoni gialli che indossa. Il corpo pallido rimane nudo sotto la luce di una luna che illumina un campo deserto. Conserva soltanto dei bracciali da cui sporgono punte d’acciaio. Il cane da combattimento al suo fianco comincia a emettere lievi gemiti. Lo fa segnalando con il muso l’interno della Cittadella. Il cane ha soltanto un occhio. Sul dorso presenta dei tagli che si è fatto durante qualcuno dei tanti combattimenti a cui è stato costretto. Si innervosisce nel sentire che alcune persone si avvicinano dall’altro lato. Compaiono tre giovani di età simili a quella dell’Universale. Come tutti i reclusi, indossano una tuta blu scura sulla quale è cucito lo stemma della Cittadella Finale. Gli domandano se ha portato le pastiglie. Dicono inoltre che non era necessario che si togliesse gli indumenti. L’Universale non risponde. Dà al cane l’ordine di calmarsi. Consegna una serie di flaconi e poi offre la vena del braccio destro avvicinando maggiormente il corpo alla recinzione. Uno dei reclusi estrae dalla tasca una siringa piena di una sostanza scura. Attraverso le maglie, l’Universale riceve il sangue infetto senza fare una piega. I reclusi scompaiono nella penombra. Prima assicurano all’Universale che non c’è possibilità di errore. Hanno mischiato il sangue dei tre. Nel vederli correre, il cane fa un balzo. Vuole inseguirli. Emette un paio di lamenti prima di zittirsi ancora. L’Universale guarda il segno che l’ago gli ha lasciato sul braccio. Dopo aver passato le dita sul punto scelto, allontana il cane e si veste lentamente. Indugia nel mettersi gli stivali. Poi raccoglie la siringa abbandonata per terra e con un movimento brusco la getta dall’altro lato.

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