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Roberto Bolaño, Uno scrittore di razza

Lavapiatti, guardia notturna, spazzino, scaricatore di porto, commerciante di bigiotteria… un curriculum di tutto rispetto per uno scrittore di razza. Se ci aggiungiamo la condizione di esule, una spiccata propensione al nomadismo e alla polemica e il vizio di far man bassa di premi e giudizi superlativi della critica, si comincia a intravedere qualche caratteristica di Roberto Bolaño.
Cileno di nascita, quindicenne si trasferisce in Messico per seguire la famiglia. Quando torna in Cile nel 1973 ha vent’anni, è un militante trozkista e vuole “dare una mano a Allende” , ma non si è ancora ambientato che entra in scena Pinochet. Lo scambiano per un terrorista messicano, lo arrestano e le cose si stanno mettendo male quando viene riconosciuto da due vecchi compagni di scuola che ne ottengono il rilascio (l’episodio è rievocato nel racconto “I detective”, in Chiamate telefoniche). Tornato in Messico, si guadagna da vivere scrivendo per giornali e riviste e si arrende alla passione della sua vita: la letteratura. Sono gli anni tumultuosi della “poesia viscerale” d’ispirazione rimbaudiana che rievocherà nei Detectives selvaggi, di cui si attende la pubblicazione presso Sellerio. Questo romanzo fiume è stato paragonato per importanza nientemeno che a Rayuela di Julio Cortazar (che da tempo reclama una nuova edizione urlando e scalciando in un cassetto della casa editrice Einaudi ) e agli altri capolavori del boom latinoamericano. Per lo scrittore messicano Juan Villoro si tratta delle “Mille e una notte di una generazione dedita ai paradisi artificiali e alla tequila”; secondo una più modesta definizione dell’autore è: “un romanzo d’avventura con sesso, droga e rock and roll” che narra le vicende di una generazione che “pretendeva di fare la rivoluzione armata, e ci è andata com’è andata; peggio, era impossibile”.

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