Goytisolo, Goytisolo recensioni, Recensioni

Juan Goytisolo, Oltre il sipario

Malgrado il ricorso alla terza persona, il protagonista di questa meditazione esistenziale, che si sviluppa come una partitura musicale in cinque movimenti, è l’autore stesso, e il testo allude ad alcuni snodi della sua vicenda biografica: la fase “mistica” con la scoperta di san Giovanni della Croce, la dolorosa perdita della moglie nel 1996, l’adozione di due bambini, i ricordi familiari e le figure dei due fratelli (entrambi scrittori), i viaggi nel Caucaso sulle orme dell’amato Tolstoij, con gli occhi sbarrati sugli orrori delle pulizie etniche. Ma pur seguendo il filo della memoria, non c’è gran dispendio di aneddoti né di accenti lirici, bensì la volontà di trarre un bilancio, per quanto disperante: “Il vero Dio era l’oblio: il suo potere onnicomprensivo smentiva quello del creatore e delle sue creature effimere”. Dio, del resto – o Mefistofele? –, prende la parola in prima persona nel quarto frammento per ribadire questa cruda verità: “Tutto sbiadisce, si oscura e si spegne”. Lo stacco è brusco e non del tutto convincente sul piano formale, sembra che Goytisolo non abbia saputo rinunciare per una volta al registro stilistico dell’invettiva retorica, di cui è maestro riconosciuto, quando la forza della prosodia (resa felicemente dalla traduttrice) di questa scrittura diaristica sta proprio nella calibrata sobrietà. Dimenticato dai nostri editori, che da almeno quarant’anni si disinteressano della sua opera, Goytisolo (classe 1931) non è granché amato neanche da molti suoi connazionali, che non gli hanno mai perdonato l’interminabile e volontario esilio (prima in Francia, ora in Marocco), la dichiarata bisessualità, l’agnosticismo e le posizioni politiche progressiste, e ancor meno l’insistenza sull’importanza della cultura araba su quella spagnola, o le recenti battaglie civili di solidarietà con gli immigrati maghrebini. Eppure, è autore di un’opera letteraria ormai monumentale, ammirata da Fuentes e da Vargas Llosa, ha saputo rinnovarsi attraversando praticamente tutte le forme assunte dal romanzo contemporaneo, e anche in questo breve testo minore dispiega le sue doti stilistiche e distilla amare e sincere riflessioni sui destini della “specie inumana” all’alba del terzo millennio.

 

(traduzione di Chiara Vighi per L’Ancora del Mediterraneo.)

 

(Pubblicato su Pulp n. 52, novembre-dicembre 2004.)

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Guebel, Guebel recensioni, Recensioni

Daniel Guebel, Carrera e Fracassi

Nell’Introduzione per il lettore italiano, Guebel afferma: «Questo è il mio romanzo più popolare e il libro più italiano che un argentino abbia mai scritto. Forse perché deve quasi tutto a uno scrittore spagnolo, Miguel Cervantes de Saavedra, e al regista Mario Monicelli». E spiega che la prima scintilla è stata la scena finale di Amici miei, quando Tognazzi gareggia con altri disabili sulla sedia a rotelle. Infatti anche Carlos “Cacho” Fracassi, protagonista del romanzo insieme a Julio César Carrera, verso la fine si ritrova su una sedia a rotelle dopo una cena pantagruelica. I due sono rappresentanti di una ditta di elettrodomestici, ma è l’unica cosa che hanno in comune: caciarone, aggressivo e spudorato il primo, campione delle vendite, quanto l’altro invece è timido, insicuro e inetto sul lavoro. Alla prima occasione Fracassi seduce la moglie di Carrera e pare odiarlo allegramente, mentre l’altro vuole farselo amico per strappargli i segreti del mestiere. Come in ogni romanzo picaresco che si rispetti non mancano episodi grotteschi, colpi di scena tanto inaspettati da apparire improbabili, sullo sfondo della provincia argentina castigata dalla crisi economica che i due percorrono tentando invano di piazzare i loro articoli.

Ma al di là delle loro tragicomiche disavventure, il clou è la storia della loro amicizia, che cresce nonostante i dispetti di Fracassi, fino a toccare le corde della poesia e della commozione.

Un avvertimento per i lettori “ingenui”: Daniel Guebel è del 1956 e ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1987, quando in Argentina si era già dispiegata l’arte del “maestro” César Aira, di cui Guebel come molti altri scrittori della sua generazione è debitore, perciò il suo “realismo” va preso con le pinze. La realtà che ci presenta è quella già rappresentata nei cliché dei discorsi comuni, nell’immaginario della cultura di massa, negli stereotipi dei generi letterari: non aspettatevi dunque la verosimiglianza ad ogni costo, che non c’è, ma godetevi questa cavalcata nei fantasiosi territori del nuovo realismo argentino.

 

(Carrera e Fracassi, tr. di Mariana Califano, La linea editore.)

 

(Pubblicato su Pulp, n. 99, 2012.)

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Pacheco, Pacheco recensioni, Recensioni

José Emilio Pacheco – Le battaglie nel deserto

«Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti»: la celebre citazione di Porfirio Díaz, presidente messicano tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si attaglia alla perfezione al padre di Carlos – il bambino di otto anni protagonista di questo splendido romanzo breve –, costretto a chiudere la sua fabbrica di sapone per la concorrenza dei detersivi statunitensi.

È il 1948, e la scuola di Carlos è frequentata da immigrati ebrei e mediorientali che durante la ricreazione riproducono le “battaglie nel deserto” condotte in quei giorni dai grandi. Il suo amichetto però è Jim, figlio di un americano e di Mariana, donna affascinante e chiacchierata. Carlos se ne innamora perdutamente e arriva persino a dichiararsi. La cosa viene risaputa e scoppia uno scandalo in famiglia.

Ci voleva un poeta (e che poeta! Premio Cervantes nel 2009) per condensare in così poche pagine il racconto di un amore impossibile, che segna anche il traumatico ingresso nel mondo ipocrita degli adulti, e questo mentre ci da un ritratto impressionista, con brevi e precise pennellate, dell’avvento della modernità a Città del Messico. Niente esotismi, comunque, anzi, alcune annotazioni risultano fin troppo familiari al lettore italiano di oggi: «Gli adulti si lamentavano per l’inflazione, i cambiamenti, il traffico, l’immoralità, il rumore, la delinquenza, il sovraffollamento, i mendicanti, gli stranieri, la corruzione, l’arricchimento osceno di pochi e la miseria di quasi tutti».

Dal 1981 il romanzo ha avuto innumerevoli riedizioni in Messico, ha ispirato un film e un brano della band Café Tacuba. La sua malinconica epigrafe potrebbe costituirne anche la conclusione: «Il passato è una terra straniera: fanno le cose in modo diverso laggiù». Per conoscere invece la visione che Pacheco ha del futuro dobbiamo ricorrere a una sua poesia:

A vent’anni mi dissero: «Bisogna / sacrificarsi per il domani». / E abbiamo dato la vita sull’altare / del dio che non arriva mai. / Mi piacerebbe ritrovarmi ora, alla fine, / con i vecchi maestri di allora. / Dovrebbero dirmi se davvero / tutto questo orrore di adesso era il domani.

 

(Pubblicato su Pulp n. 98, luglio-agosto 2012.)

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Aira approfondimenti, Approfondimenti, César Aira

I fantasmi, il gotico surreale di César Aira

Los fantasmas, nella nutrita bibliografia delle opere di Aira, è il primo romanzo ambientato nel quartiere di Flores, a Buenos Aires, dove l’autore vive. Inaugura dunque quello che la critica ha chiamato il suo “ciclo urbano”, proseguito poi con La guerra de los gimnasios, La abeja, El sueño, Las noches de Flores, ecc. Il romanzo uscì in Argentina nel 1990, ma la sua stesura, come si evince dalla data in calce, fu ultimata il 13 febbraio 1987. (In fondo a ogni romanzo di Aira si trova una data, quasi a comporre un ideale diario; nel 1987 ne scrisse altri tre: El bautismo, La liebre ed Embalse, fra l’altro consistenti come numero di pagine, segno di un’irrefrenabile vena creativa.)

Los fantasmas presenta alcuni aspetti tematici che lo avvicinano agli altri romanzi “urbani”, ma per limitarsi al punto di vista stilistico vale la pena notare soprattutto una “voglia di realismo” che si manifesta nelle dettagliate descrizioni degli spazi e delle atmosfere, e nelle notazioni sociologiche e di costume. In quegli anni Aira non aveva ancora maturato l’insofferenza per i “tratti circostanziali”, si impegnava a “scrivere bene”, senza sacrificare tutto all’idea centrale della narrazione, e ci ha regalato narrazioni molto godibili, raffinate, ricche di fioriture poetiche, sia quando immerge il lettore nella favolosa e sterminata pampa argentina, come in La liebre, sia quando lo scenario in cui si sviluppano le sue imprevedibili narrazioni è lo spazio ancora indefinito di un edificio in costruzione, come nei Fantasmi. (Spazio che gli consente, fra l’altro, di aprire un’ampia digressione – un’altra costante nella sua opera – sul tema dell’architettura, con excursus di sapore enciclopedico e antropologico sulle concezioni architettoniche di culture esotiche.)

Aira introduce i suoi fantasmi – niente lenzuoli, si tratta di uomini nudi coperti di calce – quasi di soppiatto, tanto che la loro menzione può sfuggire a un lettore poco attento: nel viavai di gente che sale le scale sbuffando – gli ascensori devono ancora essere installati e l’afa è soffocante –, “altri non dovevano sobbarcarsi quella fatica: salivano e scendevano fluttuando, persino attraverso i pavimenti”. La seconda apparizione è altrettanto fugace e inspiegabile: “Sul bordo dell’antenna […] erano seduti tre uomini completamente nudi, il viso rivolto al sole di mezzogiorno; naturalmente, nessuno li vide”. Con la terza apparizione, quando per la prima volta vengono chiamati “fantasmi”, si esce definitivamente dai rassicuranti binari della verosimiglianza e il lettore viene trascinato nel vertiginoso universo di Aira: “Un muratore che passava per caso […] allungò la mano libera e senza fermarsi afferrò il pene di uno di loro, tirandolo mentre continuava a camminare. Il pene si allungò fino a due metri, tre, cinque, dieci, fino al marciapiede. Quando il muratore lo lasciò andare, tornò al suo posto con uno schiocco dagli strani suoni armonici […] I due fantasmi moltiplicarono le risate incontenibili, più forti che mai”.

A questo punto al lettore rimangono due alternative: o, sentendosi defraudato di qualcosa, getta via il libro imprecando contro l’autore e l’editore, oppure comincia a piegare le labbra in un sorriso di meraviglia e decide di arrendersi e di lasciarsi condurre in un’avventura che gli riserverà ben altre sorprese.

Intanto il racconto prosegue con la descrizione della vita all’interno dell’edificio in costruzione: i preparativi per la cena di Capodanno, gli ultimi acquisti al supermercato – i supermercati sono uno dei luoghi prediletti della narrativa di Aira, si pensi a Il marmo –, ma solo i bambini e i cileni (lavoratori immigrati con le loro famiglie) vedono i fantasmi, sempre sarcastici e ridanciani, invisibili per tutti gli altri. I bambini sono alle prese con i loro giochi, affidati alle cure di Patricia, una ragazza quattordicenne che vive il tumulto sessuale tipico della sua età ed è intrigata dalla presenza dei fantasmi e dai discorsi della madre sui “veri uomini”. Del resto, i fantasmi ricambiano la sua curiosità, tanto da rivolgerle la parola per invitarla alla loro festa di Capodanno.

Per tacere, ovviamente, del finale – dirò solo che io l’ho trovato agghiacciante, il punto in cui I fantasmi rientra a pieno titolo nel genere “gotico” cui rimanda fin dal titolo –, concluderò con qualche osservazione dal punto di vista del traduttore. Tradurre Aira è un compito “facile” solo in apparenza. È vero che lui ha affermato di aver scelto un linguaggio volutamente piano e semplice per non complicare troppo la vita al lettore, che già deve districarsi nelle trame spericolate delle sue novelitas, ma le “idee” che sgrana via via, spesso sul filo del paradosso, sono tutt’altro che facili da interpretare, talvolta restano un po’ enigmatiche o ambigue, il che non toglie loro un certo fascino. Nei Fantasmi, in particolare, si incontrano difficoltà di esegesi nella digressione sull’architettura, così come si presentano problemi nella presentazione della sottile dialettica argentini/cileni, con le loro diverse mentalità, usi e costumi, ecc., talvolta di non immediata comprensione per un lettore straniero. Ma lo scoglio principale consiste forse nella resa dei passi dove soffia con maggiore forza una brezza poetica, e in questo caso il traduttore, dopo aver cercato di fare del suo meglio, deve suggerire al lettore di leggersi l’originale.

 

(Pubblicato sul blog di Sur.)

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Approfondimenti

Franco Cordelli nelle sabbie mobili della letteratura messicana

Mentre era impegnato a tracciare la sua «mappa della palude» della letteratura italiana contemporanea che tante polemiche ha suscitato, il critico teatrale e scrittore Franco Cordelli ha trovato anche il tempo per fare una scorribanda nella nuova narrativa messicana e ha dato conto delle sue letture in un pezzo intitolato: «Sotto le stelle del Messico a inventare trame. E quelle di Sada sanno di trasgressione» (La Lettura del «Corriere della sera» del 18/5/14).

tapa_ebook_BELLATINDopo un paragrafo in cui percorre a volo d’uccello i nomi degli autori messicani più noti, Paz, Rulfo, Fuentes, passando per Taibo II e Mastretta, Cordelli arriva a Pitol e Pacheco, e poi ai più giovani – Villoro, Bellatin, Volpi, Herrera, Villalobos, Nettel e Monge –, di cui fornisce pedantemente le date di nascita e niente più. Per Cordelli si tratta di una «quantità impressionante», ma in effetti se ne è lasciati sfuggire un bel po’, altrimenti avrebbe senz’altro scritto esplicitamente «una quantità eccessiva». (Senza andare troppo lontano, io ho tradotto tre romanzi e due raccolte di racconti di Enrique Serna, due romanzi di Cristina Rivera Garza e un noir di Joaquín Guerrero Casasola. Inoltre sono stati tradotti Jorge Ibargüengoitia, Laura Esquivel, Carmen Boullosa, Margo Glantz, Élmer Mendoza, Valeria Luiselli, Ignacio Padilla, Rafael Bernal, e recentemente di Josefina Vicens e Juan García Ponce, e l’elenco non è affatto esaustivo.)

Pacheco (1939-2014) e Pitol (1933) finiscono poi inspiegabilmente arruolati tra i «nuovi scrittori messicani» (insieme a Yuri Herrera, Mario Bellatin e Juan Villoro) che Cordelli ha letto: «Ne ho letti cinque: cinque libri brevi. Mi hanno deluso tutti».

José Emilio Pacheco viene spacciato in tre righe che fanno dubitare fortemente che Cordelli si sia preso davvero la briga di leggerlo: «La battaglia del deserto di Pacheco è il racconto di un amore giovanile, che rimane in sospeso prima che il protagonista se ne vada a New York».

Intanto, il titolo corretto del romanzo è Le battaglie nel deserto, e Pacheco non è stato «prima poeta e poi narratore», bensì il contrario. Ma poi, si può definire «amore giovanile» quello di un bambino che frequenta le elementari per la madre di un suo compagno di scuola? Il racconto peraltro non rimane affatto «in sospeso»: Carlos bigia le lezioni per dichiararsi alla bella Mariana, ma il suo amico gli fa la spia, cosicché scoppia uno scandalo e i genitori lo portano da un sacerdote e da uno psicologo e lo ritirano dalla scuola. (Gustosissima la scena della confessione, quando il prete gli domanda se si è toccato e se c’è stato derrame.) Dopo di che Carlos viene a sapere che la donna oggetto del suo desiderio è morta suicida. E non è che «il protagonista se ne va a New York»: trattandosi di un bambino, sono i genitori a portarcelo.

Soprattutto, siamo proprio sicuri che Le battaglie nel deserto sia solo «il racconto di un amore»? Non vi ha letto Cordelli la nascita del Messico moderno e la scomparsa del paese tradizionale, l’ingresso nel mondo ipocrita degli adulti, la ricreazione di una città e di una memoria collettiva?

Diciamo le cose come stanno, e come può verificare qualsiasi lettore: Le battaglie nel deserto è un piccolo capolavoro – 67 pagine nella mia edizione messicana del 2010, la 17a –, ed è considerato tale non solo nel continente americano ma ovunque sia stato tradotto (in Russia e in Giappone, oltre che in tutti i paesi europei).

Un altro dei libri recensiti da Cordelli che Cordelli probabilmente non ha letto è Salone di bellezza di Mario Bellatin. Lo si evince scorrendo le poche righe che gli dedica: «Salone di bellezza di Bellatin racconta anch’esso una trasformazione, quella di un salone di bellezza in una specie di acquario-rifugio per alienati e malati in genere (ma confesso di non averlo capito affatto)». Alienati e malati in genere? A chiunque legga il libro dovrebbe risultare chiaro che si tratta di ammalati di Aids. Anche se Bellatin non fa mai il nome della malattia, gli elementi che offre sono inequivocabili. Cosa fa pensare invece a Cordelli che si tratti di «alienati»? E cosa sarebbe un «malato in genere», laddove si specifica che si tratta di malati terminali? Cordelli confessa di «non averlo capito affatto», ma farebbe meglio a confessare di non averlo letto. Come ha scritto con acutezza Francesca Lazzarato, per anni «nessuno si è azzardato a pubblicare un autore considerato troppo sperimentale per il nostro pubblico, nonché lontano dalle tipologie di scrittura latinoamericana tutt’ora radicate nell’immaginario dei lettori e anche in quello di molti critici».

Di La vita coniugale di Sergio Pitol e La ballata del re di denari di Yuri Herrera ci vengono offerti due tweet assolutamente neutri da Cordelli, che preferisce accanirsi invece contro Chiamate da Amsterdam di Juan Villoro («poco più che una variazione su temi esauriti perfino nel cinema»), prima di passare a spiegarci perché tutti e cinque questi libri lo hanno deluso: «Questi romanzi brevi sono deludenti per lo stesso motivo, perché sono privi di stile, ovvero sembrano scritti (per quanto si può giudicare da una traduzione) in uno stile per così dire internazionale: anonimo, anodino. C’è poi un’altra questione cruciale. Sto parlando di romanzi brevi. Ma la narratività contemporanea è tutt’altro che breve. Al contrario, è lunga, fluente, avvolgente, fatta di racconti che non finiscono mai».

Privi di stile? Uno «stile per così dire internazionale»? Ohibò. Che Sergio Pitol e José Emilio Pacheco siano privi di stile è un’affermazione talmente gratuita e spropositata che non vale la pena di commentarla.

Prendiamo invece un giovane come Yuri Herrera, autore di una trilogia (La ballata del re di denari, Segnali che precederanno la fine del mondo e La trasmigrazione dei corpi, pubblicati i primi due da La Nuova Frontiera e il terzo da Feltrinelli, tutti tradotti da Pino Cacucci) che ha suscitato il massimo interesse della critica proprio per l’assoluta originalità del linguaggio, «che parte dall’oralità messicana contemporanea per estendersi verso i territori dell’invenzione verbale, dell’accumulo e della circonlocuzione», come ha scritto Patricio Pron. E il suo approccio al narcotraffico è stato caldamente elogiato da un critico come Rafael Lemus, feroce nei confronti di tanta letteratura del Nord del Messico che ha affrontato questa tematica in modi stereotipati. Il suo linguaggio è così poco «anonimo e anodino» che il bravo Cacucci ha dovuto inserire una nota (in La trasmigrazione dei corpi) per spiegare la traduzione di Alfaqueque, reso con Mediatore: «L’autore usa un termine derivato dall’arabo e che in Spagna significava “redentore di prigionieri” […]».

Ma la vera questione cruciale, per Cordelli, quello che proprio non gli va giù, è la brevità di questi romanzi, quando, a suo dire, «la narratività contemporanea è tutt’altro che breve». Be’, dovrà farsene una ragione: nell’America di lingua spagnola, e in Messico in particolare, succede esattamente il contrario, e non da ieri. Già agli inizi del Novecento Mariano Azuela, che ci ha lasciato il più bel romanzo della Rivoluzione messicana, Los de abajo, ha scritto notevoli romanzi brevi, e così pure Amado Nervo e Xavier Villaurrutia. Negli anni Quaranta è stata la volta di Francisco Tario e di Efrén Hernández, negli anni Cinquanta di Juan José Arreola, Juan García Ponce e Ricardo Garibay.

Come ha scritto Juan José Saer nel prologo all’edizione dei romanzi brevi di Juan Carlos Onetti: «Verso il 1960, fra i narratori giovani che si lanciavano nel lavoro letterario, la forma che incarnava la massima aspirazione estetica, il modello di qualsiasi perfezione narrativa, non era né il romanzo né il racconto, ma il romanzo breve. […] il fascino che esercitava il romanzo breve decadde solo quando, a metà degli anni Sessanta, il genere “grande romanzo d’America”, patetica sovrapposizione di stereotipi latinoamericani destinata a conquistare il mercato anglosassone, piegandosi nel contenuto e nel formato alle sue norme commerciali, sloggiò dalle librerie i discreti e ammirati volumi di un centinaio di pagine circa che perpetuavano tanti capolavori». E di tutta l’opera di Carlos Fuentes non sono pochi a preferire di gran lunga la sua nouvelle fantastica Aura (appena 90 smilze paginette).

Fortunatamente, è successo che generazioni di scrittori successivi al boom degli anni Sessanta hanno poi rifiutato l’idea del narratore onnisciente, del romanzo totalizzante, dell’epopea, della saga familiare, del polpettone storico, per abbracciare l’estetica del frammento, della testimonianza individuale, del punto di vista decentrato e obliquo.

Con la loro mania della brevità, gli scrittori ispanoamericani hanno addirittura inventato un genere, leminificciones, racconti brevissimi, a volte di poche righe, il cui celeberrimo capostipite riconosciuto è «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì», del guatemalteco Augusto Monterroso.

Se poi abbandoniamo per un momento il Messico, c’è il caso eclatante dell’argentino César Aira, che dopo aver esordito alla fine degli anni Settanta con alcuni romanzi «lunghi», sulle 200 pagine, ha imboccato con decisione la strada della nouvelle, con romanzi che spesso non raggiungono le 100, al ritmo di tre-quattro l’anno; e siccome ha la vocazione del provocatore, ha pubblicato in uno stesso volume un romanzo e un racconto… dove il racconto è più lungo del romanzo.

Cordelli però, bontà sua, ha voluto dare un’altra chance alla letteratura messicana, e così si è «deciso a scegliere tra due romanzi veri e propri, due romanzi lunghi»: Non sarà la terra di Jorge Volpi eQuasi mai di Daniel Sada. Del primo nulla ci dice perché ha preferito il secondo, ma si sbarazza subito della bandella – l’accostamento a Joyce e Lezama Lima gli sembra fuori luogo, come pure il riferimento al barocco – per rivelarci che: «La cosa vera, evidente, è l’apparizione, in questo romanzo, d’uno stile personale». Finalmente! vien voglia di urlare. Quello che segue però fa cascare le braccia: «Ovviamente non del tutto personale: i primi accenni di punteggiatura (i puntini di sospensione) ci parlano di Céline; poco più avanti si capisce che il faro di Sada è però Gombrowicz, in modo inequivocabile. Per due ragioni: la presenza ossessiva dei due punti, quella degli esclamativi, la povertà di verbi: insomma uno stile nominale al massimo grado». Ora, senza imbarcarsi in una problematica definizione di che cosa sia lo stile (personalmente mi accontento di quella suggerita dal poeta cileno Enrique Lihn, secondo cui «lo stile è il vomito», tanto per chiarire che è qualcosa che viene da dentro), ridurlo a una questione di punteggiatura mi sembra una boutade di cattivo gusto.

Quanto alla tematica: «Sada ha un chiodo fisso, quello della trasgressione, e per lui, o almeno in Quasi mai, la trasgressione è tutta chiusa nel mondo della sessualità».

Ancora una volta è necessario contraddire Cordelli, e per farlo basterà confrontare i suoi giudizi con quelli di Christopher Domínguez Michael, fra i più noti critici letterari ispanoamericani, in una recensione al romanzo pubblicata nel gennaio 2009 nella rivista Letras libres: «Casi nunca è uno studio della vita di provincia e un romanzo erotico. […] Non abbondano da noi i romanzi erotici, e quelli scritti dalla generazione precedente (come quelli di Juan García Ponce) si situano sotto l’imperio della trasgressione, un’ubbidienza estranea a Sada. Sada non è sadiano: i mille e uno ritorni al coito che si verificano in Casi nunca appartengono al regno della libertà spensierata, godereccia, degli altri libertini, quelli che hanno trovato nella naturalezza del sesso, senza lasciarsi intristire dalla ruota della tortura o dal ricatto romantico, l’unica attività che giustificava la nostra breve permanenza nel mondo». E diversamente da quanto scrive Cordelli («Demetrio abbandona al suo destino la puttana Mireya per guardare alla santità del sesso attraverso il matrimonio con Renata»), così argomenta Christopher Domínguez Michael, per il quale Sada è «padrone di una prosa che lo rende il più inconfondibile dei narratori nella nostra lingua»: «Il lieto fine del romanzo sta nel trionfo della natura, diciamo così, sulla società: “il sesso-motore, il sesso-angoscia” governerà l’alcova della nuova coppia come aveva illuminato la camera del bordello».

E così, nemmeno Sada alla fine si salva dalla furia di Cordelli, perché la sua ironia, «la sua ansia d’assoluto che va a poco a poco riducendosi nell’idea del “quasi mai separati”, si trasforma, fino a dilagare, in spiritosaggine».

Ma lo sconcerto nel leggere questo pezzo di Cordelli arriva al culmine con la frase conclusiva: «Scopriamo che la bruschezza mitopoietica della partenza (una specie di scoperta del nuovo nel vecchio) stava diventando risoluzione del vecchio nel nuovo per una specie di abuso faustiano dell’elisir da Sada scovato, fino a deturparne il sembiante, nell’altrui letteratura».

Be’, se qualche anima buona volesse illuminarmi sul significato sibillino di questa frase, gliene sarei grato.

In conclusione, si apre una serie di domande che forse meritano una malinconica riflessione collettiva: è lecito scrivere un pezzo che vorrebbe essere un’analisi della recente letteratura messicana, infarcito di giudizi approssimativi e dissennati, senza conoscere la lingua né gli autori di cui si parla? Senza essere in grado di contestualizzarli? Che senso ha un’operazione del genere? Un tempo, negli anni Sessanta e Settanta, sul «Corriere della Sera» e altri quotidiani italiani, a scrivere dei «nuovi autori» ispanoamericani di allora – Neruda, Borges, Rulfo, García Márquez, Vargas Llosa, Cortázar – erano emeriti ispanisti come Dario Puccini e Federico Tentori Montalto, critici come Goffredo Fofi, scrittori come Guido Piovene, poeti come Mario Luzi e Gianni Toti. Oggi basta essere una «firma» per poter scrivere impunemente qualsiasi cordelleria? È da decenni che si scrive e si dibatte dell’inesorabile e vertiginoso declino della critica letteraria, ma qualcuno poteva immaginare una deriva simile?

 

(Pubblicato sul blog di Sur il 25 giugno 2014.)

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