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Tradurre Ramiro Pinilla

Quando mi è stato proposto di tradurre La higuera (Il fico), di Ramiro Pinilla conoscevo solo Aquella edad inolvidable, storia di una promessa del calcio costretta ad abbandonare la carriera, che conserva però fino alla fine una grande dignità. Il libro era un regalo di un’amica e collega, grande estimatrice dell’autore, che da tempo me ne raccomandava la lettura.

Confesso che il numero di pagine di quello che è considerato il suo capolavoro, la trilogia di Verdes valles, colinas rojas, mi aveva spaventato, ma la curiosità era rimasta, anche perché – afflitto come sono da una concezione romantica della letteratura – provo un’immediata simpatia per gli scrittori che nella vita hanno fatto vari mestieri, che scrivono per autentica vocazione e non per rispettare scadenze, in perfetta solitudine, indifferenti ai maneggi delle conventicole editoriali. E Pinilla rientra a pieno titolo in questa schiera. Infatti ha lavorato come macchinista su una nave, poi in una fabbrica di gas e infine come redattore presso una casa editrice, mentre scriveva di nascosto e nello scarso tempo libero che gli lasciavano gli impegni familiari. Il che rende ancora più ammirevole la sua vasta opera: oltre venti romanzi e due raccolte di racconti. 

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Horacio Castellanos Moya, La serva e il lottatore

La serva e il lottatore, di Horacio Castellanos Moya (trad. di Enrica Budetta, Rizzoli, 252 pagg., 18 euro) appartiene a un gruppo di quattro romanzi – l’autore non ama la definizione di “saga” –, pubblicati fra il 2004 e il 2011, che ruotano intorno all’epopea della famiglia Aragón e inquadrano alcuni momenti cruciali della storia di El Salvador, come la sollevazione popolare contro il regime del dittatore Maximiliano Hernández Martínez del 1944 o la breve e cruenta guerra con l’Honduras del 1969. La trama si sviluppa nel giro di pochi giorni del 1980, alla vigilia dell’assassinio dell’arcivescovo Óscar Romero e dello scoppio della guerra civile che insanguinerà il paese fino al 1992, con oltre 80.000 vittime, opponendo i guerriglieri del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (Fmnl) a una serie di governi guidati da militari con l’attivo sostegno di Ronald Reagan e degli Stati Uniti. Divennero tristemente famosi gli squadroni della morte, che fecero scomparire migliaia di militanti di sinistra, e proprio un ex membro di questi gruppi paramilitari, Robocop, è il protagonista dell’unico romanzo di Castellanos Moya tradotto finora in Italia, L’uomo arma (La Nuova Frontiera, 2006): dopo la smobilitazione, diventa un delinquente comune. E non si è trattato di “casi isolati”: basti pensare che la Mara Salvatrucha – una delle bande più numerose, ramificate e crudeli della delinquenza organizzata che infesta il Centroamerica, alcuni Stati occidentali degli Usa e il Canada – è nata a Los Angeles proprio da espatriati salvadoregni.

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Xaimaca di Ricardo Güiraldes

Postfazione

Come si potrebbe classificare il libro che il lettore ha fra le mani? “Romanzo” è forse una definizione troppo impegnativa, e non ci si riferisce alla sua brevità: abbiamo tre soli personaggi, una trama esile, e gli aneddoti evocati, niente affatto straordinari, sono piegati all’esigenza suprema della creazione di un’atmosfera, piuttosto che a un vero e proprio sviluppo narrativo. Allora, è il racconto diaristico di un viaggio? In effetti, così si presenta a un primo sguardo: non mancano le date, la menzione dei porti di scalo, la descrizione dei mutamenti del paesaggio, la notazione della diversità dei tipi umani incontrati lungo la rotta; ma tutti questi dettagli, in fondo, costituiscono solo il contrappunto dei cambiamenti d’umore e delle sensazioni di Marcos, la voce narrante. Non si tratterà invece del puntuale resoconto, dapprima vagamente svogliato e perplesso e poi sempre più ispirato e convinto, di un innamoramento (o di una fatale infatuazione)? O dobbiamo piuttosto pensare di aver letto una miscellanea di note sparse, una collezione di istantanee dal sapore vagamente esotico, le spensierate digressioni di un bon vivant cosmopolita, legate da un sottilissimo filo narrativo?

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Kafka a Montevideo

Forse il nome di Mario Levrero non dice nulla alla maggioranza dei lettori italiani. Eppure, Lascia fare a me (La Nuova Frontiera, trad. di Elisa Tramontin), uscito in questi giorni, è il suo terzo libro pubblicato da noi, dopo Il romanzo luminoso (2014) e Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo (2016), entrambi per Calabuig. Purtroppo, il secondo uscì a fine luglio, e Calabuig si è rivelata un’effimera meteora. Inoltre, chi li avesse letti entrambi avrebbe faticato a riconoscervi lo stesso autore: Il romanzo luminoso è un testo postumo dall’andamento diaristico, introspettivo, malinconico, di 700 pagine, mentre Nick Carter… risale al 1975, di pagine ne conta appena 90 e, come lascia intendere già il titolo, ha una forte impronta ludica.

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Borges, l’antipatico

Non saprei dire con precisione il momento in cui ho dovuto confessare a me stesso, non senza una sorta di stupore, che Borges, Jorge Luis Borges, lo scrittore che avevo amato da ragazzo soprattutto per i racconti di Finzioni, mi era profondamente, visceralmente antipatico. E faccio fatica anche a ricordare se questa antipatia sia nata e si sia consolidata poco a poco, o se sia trattato invece di una rivelazione improvvisa.

Forse all’origine c’è un famoso aneddoto che non riesco peraltro a situare temporalmente nella biografia di Borges. Eccolo. Al termine di una delle tante conferenze che tenne in qualche biblioteca di provincia (o in una sala della capitale), fu avvicinato da una signora che, dopo entusiastici complimenti, gli confessò ingenuamente: «Sa, anch’io scrivo…». E lui: «Ah sì? E a chi?».

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