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Kafka a Montevideo

Forse il nome di Mario Levrero non dice nulla alla maggioranza dei lettori italiani. Eppure, Lascia fare a me (La Nuova Frontiera, trad. di Elisa Tramontin), uscito in questi giorni, è il suo terzo libro pubblicato da noi, dopo Il romanzo luminoso (2014) e Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo (2016), entrambi per Calabuig. Purtroppo, il secondo uscì a fine luglio, e Calabuig si è rivelata un’effimera meteora. Inoltre, chi li avesse letti entrambi avrebbe faticato a riconoscervi lo stesso autore: Il romanzo luminoso è un testo postumo dall’andamento diaristico, introspettivo, malinconico, di 700 pagine, mentre Nick Carter… risale al 1975, di pagine ne conta appena 90 e, come lascia intendere già il titolo, ha una forte impronta ludica.

Il romanzo luminoso fu accolto da due recensioni significative, di Francesca Lazzarato sul “manifesto” (ora sul suo blog: http://latartarugaequestre.blogspot.com/2014/11/da-leggere-mario-levrero.html ) e di Luca Doninelli sul “Giornale”. Lazzarato, con la consueta competenza, forniva utilissime informazioni biografiche, a partire dallo sdoppiamento del nome completo dell’autore (Jorge Mario Varlotta Levrero): Mario Levrero autore di narrativa e Jorge Varlotta sceneggiatore di fumetti e creatore di cruciverba.

E concludendo la nota suggeriva che il romanzo «si avvia a diventare una delle opere capitali della letteratura latinoamericana del nuovo secolo».

Doninelli esordiva con un’affermazione in apparenza straniante («Il romanzo luminoso è una sorta di enciclopedia, non so quanto involontaria, di tutto ciò che un romanzo non deve essere oggi»), e dopo aver chiarito che si riferiva ai romanzi che piacciono al mercato editoriale, concludeva così: «Ecco quello che si può chiamare un capolavoro. Il romanzo luminoso si nega ogni esibizione di tecnica ed è un prodigio di tecnica; si nega ogni trama e la sua trama è fitta e persuasiva come poche; rifiuta ogni rappresentazione psicologica ed è uno dei migliori ritratti del nostro io così come esso è realmente, fuori da ogni infingimento». “Opera capitale” e “capolavoro”.

Nick Carter… invece, che si può accostare a un altro romanzo breve, La Banda del Ciempiés, si meritò una breve e succosa recensione di Loris Tassi, che di Levrero aveva già tradotto e pubblicato il racconto “Confusione nel noir” nell’antologia Inchiostro sangue, per le Edizioni Arcoiris. Senza lasciarsi abbagliare dal tono parodistico, Tassi sottolineava che «è un’opera più complessa di quanto il titolo lasci supporre», e segnalava un passo: «L’enigma sei tu, Nick Carter, l’unico vero enigma che non hai mai risolto […] E tu, lettore, che ti impietosisci per il vuoto di Nick Carter, che cosa sai dirmi di te? Del tuo enigma, della tua identità? Non ti rendi conto che anche tu sei stato assassinato? Anche a te hanno piantato un coltello nella schiena il giorno stesso in cui sei nato. […] Tu non sei migliore di Nick Carter, e neppure di me».

La difficoltà di imbrigliare in una definizione una scrittura così singolare ha spinto molti critici a classificare un po’ frettolosamente Levrero come un “autore fantastico”, ma lui ha sempre difeso la propria concezione di “realismo”: «La critica letteraria sembra dare per scontate molte cose, fra cui l’esistenza di un mondo esteriore oggettivo, e a partire da lì segnala limiti precisi alla realtà e al realismo, dando per scontato che il mondo interiore è irreale e fantastico, e cerca di classificarlo secondo tali punti di partenza arbitrari e pretenziosi».

Gli stessi critici approssimativi trovavano un po’ indigeste le sue nouvelle più ambiziose e pregevoli (Faunas e Desplazamientos, pubblicate in un unico volume), o gli straordinari racconti riuniti da Riccardo Strafacce nel volume Nuestro iglú en el Ártico, scelti dalle numerose raccolte. Preferivano piuttosto romanzi tutto sommato più “tradizionali” (in questo caso le virgolette sono d’obbligo), come la cosiddetta Trilogia involontaria, La ciudad, El lugar e Paris, dalle atmosfere inquietanti e consapevolmente «kafkiane».

Dopo la sua morte (nel 2004), però, la situazione è cambiata: La novela luminosa ha avuto un’accoglienza entusiastica unanime, così come El discurso vacío – accostato al primo per la forma diaristica –, che racconta le enormi difficoltà del tentativo di scrivere soltanto come esercizio di calligrafia, senza un tema o altro scopo: per l’appunto, “un discorso vuoto”. Si è cominciato a ripubblicare tutte le sue opere, fra cui si contano anche il romanzo breve El alma de Gardel e il racconto lungo A caza de conejos, originariamente pubblicato in un’antologia di fantascienza latinoamericana, che non ha niente da invidiare all’invenzione dei cronopios e dei fama di Cortázar. Sono stati pubblicati anche due “diari”: Burdeos 1972 e Diario de una canalla. Il primo racconta la permanenza di Levrero a Bordeaux, dove aveva seguito una donna per amore. Il secondo anticipa El discurso vacío, e la “canagliata” dell’autore consisterebbe nel fatto di aver trascurato la scrittura accettando un lavoro fisso. Il che mi rimanda alla prefazione a una raccolta di testi giornalistici di Levrero, Irrupciones, dell’amico e discepolo Felipe Polleri: «A Mario e a me il lavoro, la semplice parola lavoro (pochi soldi in cambio di molto tempo), faceva orrore».

Lascia fare a me (Dejen todos en mis manos) è un romanzo “minore” di Levrero, ma può rappresentare un ingresso privilegiato nel suo mondo, perché racchiude molti elementi presenti in tutta l’opera, anzitutto la forte impronta autobiografica. Non c’è dubbio infatti che la voce narrante, uno scrittore che si improvvisa detective, sia l’autore stesso, e lo si capisce già dalle prime righe: «I critici si arrovellano per classificare la mia letteratura in questa o in quell’altra categoria, ma gli editori sono più realisti, e unanimi; c’è una sola categoria possibile per la mia letteratura: buona, ma…». Assillato dal problema della sopravvivenza economica, lo scrittore accetta un incarico da parte del suo editore: scoprire l’identità di un certo Juan Pérez, autore di un manoscritto ricevuto via posta senza mittente e giudicato straordinario e degno di immediata pubblicazione dagli «svedesi». Incassato un piccolo anticipo in dollari, legge il libro, che gli sembra un capolavoro – anche perché riecheggia concezioni che lui condivide («Secondo Juan Pérez […] democrazia e dittatura militare erano due facce di una stessa medaglia, mentre la vita, la vita vera e reale, si svolgeva in altri luoghi, su altri piani») e si mette in viaggio. Nella cittadina in cui si reca e che rinomina Penuria regna una calura e un’atmosfera oppressiva, ma subito salta fuori una Juana Pérez, che però non ha nulla a che vedere con lo scrittore misterioso: è una prostituta. A questo punto inizia una catena di «distrazioni» che porteranno il nostro improvvisato detective sempre più lontano dall’obiettivo della sua ricerca, e addirittura a ignorare la pista risolutiva che pure gli viene offerta. È la logica del desiderio, che prevale sugli impegni e le regole liberando un umorismo irresistibile, come nell’opera di Kafka, e Levrero ha saputo seguire le orme del maestro. Questo si evince anche dalla costante presenza, in tutta l’opera, dell’elemento onirico, che non viene mai introdotto in modo meccanico e gratuito, come succede in tanta cattiva letteratura, ma segna il superamento di una soglia solo immaginaria fra la “realtà” e il “sogno”.

È troppo chiedere a La Nuova Frontiera di continuare nella pubblicazione dell’opera di Levrero?

 

(Pubblicato su Alfabeta2 il 22 luglio 2018)

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