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Profilo di Pedro Lemebel

«Mi sono innamorato mille volte senza essere corrisposto.» L’affermazione, ricorrente nelle interviste concesse da Pedro Lemebel, svela il nucleo tematico principale del suo fortunato romanzo Ho paura torero, che dopo essere rimasto per un anno in testa alle classifiche di vendita in Cile è approdato anche in in Europa: la storia dell’amore non corrisposto – “impossibile”, come si suol dire – di una loca (una “checca”) quarantenne per un giovane rivoluzionario che si batte contro Pinochet. Una “storia rosa su sfondo rosso”, come è stata definita, che ha interessato anche qualche produttore, memore del successo delle versioni cinematografiche di Fragole e cioccolata del cubano Senel Paz e Il bacio della donna ragno dell’argentino Manuel Puig.

La vicenda si svolge nel 1986, in una Santiago in preda a convulsioni sociali e politiche, percorsa da manifestazioni scandite dal baccano delle pentole e oscurata da continui black out: Carlos, militante del Frente Patriótico Manuel Rodríguez, prepara un attentato contro il dittatore servendosi della casa della loca come base operativa. Lei, perdutamente innamorata, lo lascia fare per tenerselo vicino e godere della sua compagnia, ma anche perché è diversa dalle sue amiche, che «pensano solo ai capelli, alla cintura, alla camicetta da mettersi il sabato per andare a dimenarsi in discoteca, per palparsi e agganciarsi tra di loro, come fanno i gay negli Stati Uniti». Oltre alle canzoni sentimentali, ascolta i comunicati di radio Cooperativa, ha una coscienza politica e perciò non si sente strumentalizzata, anche se vorrebbe che Carlos si confidasse dicendole almeno il suo vero nome. Lui non può ricambiarla come lei desidererebbe: ama (senza essere ricambiato) il Cile e rincorre un’immagine oleografica di bambini cubani sorridenti, eppure, l’incontro fra questi due emarginati – l’“estremista” e il “degenerato” – vibra d’intensità e di sincerità.

Al loro improbabile ménage – fatto di attese, di dialoghi che lei infarcisce di strofe di boleros, di carezze intime rubate mentre lui dorme, di gentilezze che turbano il suo candido machismo – fa da contrappunto quello del dittatore e della moglie, imbalsamati nei cerimoniali paranoici del regime militare, mentre ai sogni a occhi aperti della Fata, intrisi di malinconia ma pervasi da un prepotente soffio vitale, si contrappongono gli incubi funerei del dittatore, assediato dalla paura e dal risentimento.

L’imboscata (che avvenne davvero) non riesce, Pinochet si salva “miracolosamente”, i milicos si scatenano nella caccia al sovversivo, e la Fata viene convinta ad abbandonare la sua casa per motivi di sicurezza e a sparire dalla circolazione. Rivedrà Carlos per l’ultima volta e respingerà il suo timido invito a partire con lui per Cuba: «La tua generosità mi commuove, amore, e vorrei guardare il mondo con la tua innocenza, che mi fa cadere le braccia. Ma alla mia età non posso continuare a correre come una vecchia pazza dietro a un sogno… Ti rendi conto, carino, che anche il mio attentato è fallito?».

Ho paura torero è la prima prova narrativa di Lemebel, ma non si tratta di un esordio letterario, tutt’altro: con La esquina es mi corazón, Loco afán e De perlas y cicatrices, tutti pubblicati nella seconda metà degli anni ‘90, si era già segnalato come uno dei più interessanti cronisti della postmodernità in America Latina (oltre a meritarsi un lusinghiero giudizio del compatriota Roberto Bolaño: «Lemebel non ha bisogno di scrivere poesia per essere il miglior poeta della mia generazione»).

Al centro di Loco afán, terribile cronaca degli anni più devastanti dell’Aids, quando ancora non si era diffusa la retorica pietistica e le minoranze “a rischio” avevano l’indice della società puntato contro, c’è il mondo gay in tutte le sue varianti e sfumature, ma sempre visto da un’angolazione politico-esistenziale radicale. Come scrive Lemebel nel suo Manifesto (parlo per la mia differenza), letto durante una manifestazione politica di sinistra nel 1986: «Non sono Pasolini che chiede spiegazioni / Non sono Ginsberg espulso da Cuba / Non sono un frocio mascherato da poeta / Non ho bisogno di maschere / Qui c’è la mia faccia / Parlo per la mia differenza / Difendo quel che sono / E non sono tanto strano / Mi disgusta l’ingiustizia / E diffido di questo balletto democratico / Ma non parlarmi del proletariato / Perché essere povero e frocio è peggio / Devi essere acido per sopportarlo».

I testi raccolti nel più recente De perlas y cicatrices, invece, letti da Lemebel con sottofondo musicale durante un suo programma radiofonico, illuminano con lampi di sarcasmo le zone d’ombra del discutibile processo di democratizzazione in Cile. La sfilata di comici televisivi, ex miss Universo, scrittori e personaggi del jet set durante gli anni della dittatura e tuttora in auge – chirurgica decostruzione di parecchi “miti nazionali” – si alterna ai ritratti di alcune vittime del terrore, senza risparmiare qualche stilettata a una certa élite di esiliati radical-chic. Gli elementi che accomunano il romanzo alle cronache, comunque, sono tanti e decisivi: la rivendicazione della differenza sessuale, la difesa delle minoranze emarginate, la denuncia degli orrori della dittatura e dell’ampia rete di complicità e connivenze. Infine, sul piano formale, l’adesione spregiudicata e giocosa alla parlata popolare, fino a configurare uno stile originale – per veemenza e lirismo – che s’innesta consapevolmente su un’importante corrente letteraria latinoamericana, quella barocca, «dove si lavora con lo sdoppiamento del linguaggio: si cerca di giocarci, moltiplicandolo attraverso i sinonimi, per esempio, che io uso per creare un linguaggio personale, autonomo, folclorico». Dall’adesione al barocco al gusto per la teatralità il passo è breve (emblematico, in Loco afán, l’episodio del corteo funebre per Choumilou, un povero travestito morto di Aids, che incrocia un altro corteo, questa volta festoso, per il ritorno della democrazia), e del resto Lemebel questo passo l’aveva compiuto nella vita prima ancora che nei suoi testi.

Insieme a Francisco Casas, infatti, alla fine degli anni ‘80 aveva fondato il collettivo artistico Yeguas del Apocalipsis, che diede vita a una quindicina di eventi “scandalosi” – performance, installazioni, video, lettura di testi –, ricorrendo alla provocazione e compiendo l’ultimo passo della metamorfosi dell’artista romantico in artista postmoderno: la moltiplicazione delle identità mediante il travestitismo. A partire dal gesto iniziale della sua carriera artistica – l’assunzione del cognome materno, Lemebel, al posto del paterno Mardones –, testimonianza di quel desiderio di “divenire donna” di cui poi ha ritrovato la teorizzazione più convincente nella filosofia di Deleuze e Guattari, con estrema coerenza, Pedro dichiara oggi: «Mi piace pensare che la prossima immagine che vedrò nello specchio offuscherà questa maschera sinistra che portiamo come identità in questa società ipocrita e bigotta».

 

(Pubblicato su Pulp.)

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