I grandi malesseri causati dalle ombre, le visioni malinconiche sorte dalla notte,
tutto ciò che è orripilante, tutto ciò che è atroce, ciò che non ha nome, ciò che non ha un perché,
bisogna sopportarlo, chissà perché.
Se da mangiare non hai che immondizia, non dire niente.
Se l’immondizia ti fa male, non dire niente.
Se ti mozzano i piedi, se ti bruciano le mani, se la lingua ti marcisce, se ti spacchi la schiena, se ti spezzi l’anima, non dire niente.
Se ti avvelenano non dire niente, neanche se ti escono le budella dalla bocca e ti si rizzano i capelli in testa; anche se annegano i tuoi occhi nel sangue, non dire niente.
Se ti senti bene non sentirti bene. Se ti fermi non fermarti. Se muori non morire. Se ti affliggi non affliggerti. Non dire niente.
Vivere è difficile; cosa difficile non dire niente.
Sopportare la gente senza dire niente non è per niente facile.
È molto difficile – in quanto pretende che la si capisca senza dire niente,
capire la gente senza dire niente.
È terribilmente difficile eppure molto facile essere gente;
ma la cosa difficile è non dire niente.
(Questi versi appartengono al poema “Recorrer esta distancia”, del 1973, che figura nel volume Immanent Visitor – Selected Poems of Jaime Saenz, A Bilingual Edition. Berkeley, University of California Press, 2002. È possibile leggere interamente il volume qui:
https://publishing.cdlib.org/ucpressebooks/view?docId=kt9m3nc9hd&brand=ucpress
Devo la segnalazione allo scrittore argentino Ariel Luppino, che ringrazio.)
Di “Percorrere questa distanza” c’è stata anni fa una traduzione di Crocetti e ricordo anche un bell’articolo su”Poesia” di Massima Cacciari. Saenz è uno di quegli scrittori che meriterebbero di essere recuperati, sia per la prosa che per la poesia.
Certo che se poi pensiamo che opere come “Yo el supremo” di Augusto Roa Bastos non sono più tradotte da decine d’anni, qualche domanda sulla miopia delle nostre case editrici bisognerebbe farsela.