Gardini, Gardini traduzioni, Traduzioni

Carlos Gardini, Prima linea

Il cielo è un brodo rosso solcato da filamenti bianchi. Colori sporchi vibrano nella neve sporca. Il rumore è un’iniezione nel cervello. Rannicchiato in una buca cieca, il soldato Cáceres non ha paura. Pensa che lo spettacolo valga la pena, anche se il prezzo dev’essere la paura. All’improvviso è come se gli togliessero la siringa, lasciandogli un vuoto doloroso. Un rumore si stacca dal rumore. Una manciata di terra e di neve colpisce il soldato Cáceres. Un silenzio gommoso gli tappa le orecchie.
Quando riapre gli occhi, il cielo è bianco, abbagliante, liscio. E il silenzio continua, un silenzio punteggiato da rumori sgocciolanti, friabili: passi, voci, strumenti metallici. Il suolo è morbido. Il suolo è un letto, un letto in una stanza d’ospedale. Un cannello di plastica gli arriva al braccio. Le mani gli fanno male.
Un giovane medico si avvicina guardandolo di sottecchi.

«Stai calmo» gli dice. «Guarirai.»
«Le mie mani» dice il soldato Cáceres. «Come stanno le mie mani?»
Il medico storce la bocca.
«Non ci sono» dice, sorridendo a un vaso di fiori appassiti. «Non ci sono più.»
Non era l’unica cosa che aveva perso.

I giorni all’ospedale erano lunghi, una galleria di ombre che si perdeva in un buco nero. Il buco era lontano. Immobilizzato sulla sedia a rotelle, lui non poteva raggiungerlo. La galleria era opaca come un vetro di bottiglia, e dietro il vetro c’erano delle ombre. A volte le ombre gli si avvicinavano e acquisivano un profilo confuso. I loro tratti si deformavano quando si appoggiavano al vetro, e le voci risuonavano distanti, voci avvolte nel cotone.
Oggi c’è un piatto speciale per te, gli diceva un’ombra. Pollo. Vuoi che ti metta da parte una coscia in più? E l’ombra gli strizzava l’occhio, gli accarezzava i capelli attraverso il vetro opaco. Il soldato Cáceres guardava il panno che lo copriva dalla cintura in giù. Una coscia in più, ripeteva scioccamente. Oppure l’ombra gli si avvicinava per offrirgli una sigaretta. Il soldato Cáceres alzava i monconi delle braccia, e l’ombra, pazientemente, gli metteva la sigaretta in bocca, gliela accendeva, la divideva con lui. Poco alla volta il vetro si incrinò. Alicia, gli disse un giorno un’ombra, mi chiamo Alicia. E la voce sembrava adesso di questo mondo, un mondo dove gli orologi battevano le ore e il tempo passava. Alicia gli raccontava storie di altri feriti di guerra, e di come erano guariti. O di come non erano guariti. Lui non parlava mai.
Quando cominciò a stare meglio (questo almeno gli dissero, che stava meglio), passava la giornata davanti al finestrone. Si trovava a un piano elevato, e guardando dal finestrone vedeva il movimento all’esterno. Il movimento erano camion militari che caricavano bare, elicotteri che scaricavano cadaveri e feriti nel piazzale, jeep che entravano e uscivano, gruppi di donne senza uniforme che portavano pacchetti e fiori, ma il movimento non era movimento perché gli mancava il rumore. Senza il vetro del finestrone vi sarebbe stato rumore, ma sempre e ancora vi sarebbero stati altri vetri per isolarlo dal vero rumore, l’iniezione nel cervello. Al centro del piazzale ondeggiava la bandiera. Non pendeva mai dall’asta. C’era sempre vento e ondeggiava sempre. Il soldato Cáceres guardava la bandiera e cercava nella propria memoria; cercava qualcosa che lo strappasse al sopore, qualcosa che rompesse tutti i vetri. Un giorno ricordò le parole di una canzone patriottica e la cosa gli fece piacere. Gli fece talmente piacere che quando Alicia attraversò il corridoio il soldato Cáceres si mise a ridere.
«Vedo che stai meglio» disse Alicia avvicinandosi.
«Quando morirò» disse il soldato Cáceres, diventando serio di colpo. Non si poteva dire se fosse una domanda o cosa.

 

Continue reading

Standard
Tegui, Tegui traduzioni, Traduzioni

Due brani del falso visconte

La prima volta che affidai le mani a una manicure, la sera sarei andato al Moulin Rouge. La vecchia infermiera mi tagliò le pellicine e limò le unghie, a cui diede poi una forma lanceolata. Per finire l’opera le coprì di smalto. Le mie mani non sembravano più appartenermi. Le posai sul tavolo, di fronte allo specchio, cambiando la postura e l’illuminazione. Presi una penna, con la mancanza di scioltezza con cui si prendono le cose davanti a un fotografo, e scrissi.

Così inizia questo libro.

La sera andai al Mouin Rouge e sentii una donna vicino a me dire in spagnolo, alludendo alle mie estremità:

«Si è curato le mani come se dovesse commettere un omicidio».

 

26 settembre 18…

 

Entriamo in un mondo nuovo. Non se ne conoscono i confini geografici. Tutti i suoi istanti sono dolorosi. La luna stanotte è un vassoio infernale. È gialla e vorrebbe essere rossa come lo sputo di un titano tubercoloso.

I vitelli partoriti questa notte hanno sei zampe e gli occhi vitrei. Entreranno subito nell’eternità alcolica dei musei. I figli dei paesani più tardi porteranno in città il settimo figlio maschio, e avrà un numero sul petto, in manicomio, in prigione o all’ospedale. Questa notte, in cui il contadino si è addormentato all’ombra maligna del fico, lo tormenterà per tutta la vita.

Ristagnano nelle latrine l’acqua e la schiuma dell’orina. Nella stella degli scolatoi il cotone degli infetti ha ingollato lo scarico, provocando il vuoto e la disperazione dei canali di scolo.

I galli del vicinato si sono svegliati troppo presto e il fischio di una locomotiva – come se arrivasse attraverso una serie di serrature – graffia il silenzio.

Il pericolo si aggira nel cortile.

Gli occhi scrutano i chiavistelli ed esaminano i paletti.

Il silenzio come un campo arido.

Il silenzio come un campo seminato.

Nella cavità della mezzanotte si inasprisce il grido infantile della locomotiva. Ha cambiato binario. Il treno prosegue, gremito di malati.

Porta nei paesi del Sud le ragazzine dalle mani flosce che hanno interrotto sulla banchina le loro eterne conversazioni sulla moda, che impera anche nei sanatori.

Porta a Vichy le madri diabetiche. A Venezia, al Cairo o a Bruges porta gli innamorati del XVIII secolo. Quelli che scrivono ancora lettere d’amore. Cambiano convento, in seguito a sofferenze morali, le badesse e i seminaristi. Vanno a cercarsi un ponte o il tetto di piombo di una cattedrale, per lasciarsi cadere di lassù, gli annoiati. Due vagoni sono affollati di scolari scheletrici, inviati dai municipi di Parigi nelle colonie balneari di Berck. Il treno è guidato da un macchinista che impazzirà durante il tragitto e proseguirà senza fermarsi al capolinea. E nel vagone merci agganciato alla coda di questa magnifica conquista del progresso umano c’è un cadavere senza parenti, spedito come carico urgente, che deve arrivare a Bordeaux prima delle dieci di mattina. È il suo ultimo appuntamento.

Ecco il paesaggio dell’insonnia che mi ha ossessionato questa notte. A tenermi sveglio era la preoccupazione di veder arrivare i genitori di una minorenne che ho sedotto fra i cespugli dell’isola di fronte a Bougival, e mi sono divertito strappando con mani febbrili la fantasia di carta velina dei bambini, la stessa a cui avevo tarpato le ali quel pomeriggio nell’anima della ragazzina, lasciandovi per tutta la vita le mie impronte digitali di caprone.

 

 

Che si debba procedere a forza di falsità per ottenere un briciolo di verità? Il paradosso sembra calzare alla perfezione per il Visconte Lascano Tegui. Il titolo di visconte, naturalmente, era falso: gli fu attribuito per errore a Tunisi da una vera contessa e lui ne fece il suo nom de plume. Il cognome del resto lo aveva già modificato spezzandolo. Falso il luogo di stampa indicato sui suoi primi libri: Parigi, laddove si trattava di Buenos Aires. False, con ogni probabilità, le sue competenze di meccanico dentista, il che non gli impedì di esercitare per qualche tempo questa professione nella capitale francese. False le notizie autobiografiche consegnate nel suo libro De la elegancia mientras se duerme, pubblicato in Italia per una sciagurata decisione dell’editore con il falso titolo Sogno senza fine, capace forse di solleticare e trarre in inganno giovani fanciulle assetate di romanzi sentimentali, che devono però essere rimaste interdette di fronte al diluvio di perversioni sessuali (sempre trattate in punta di penna, peraltro).
Un falso clamoroso – architettato appunto per avere finalmente un po’ di verità – il Visconte lo compì quando, di fronte all’indifferenza o agli insulti con cui la critica aveva accolto nel 1910 una sua raccolta di poesie, decise di ripubblicarle cambiando il nome dell’autore (un gesto che avrebbe fatto gongolare i situazionisti). Per la bisogna si servì del nome del figlio omonimo di Rubén Darío. Naturalmente questa volta fu accolto da lodi entusiastiche, come aveva previsto. Il suo misurato e sardonico commento fu: «Avevo ragione: l’etichetta del libro per loro valeva di più di quello che conteneva».
Inutile dire, forse, che con tali premesse l’opera di questo avanguardista argentino cadde per molti anni nell’oblio, finché nel 1995 l’editore di Simurg non si accorse di avere fra le mani un gioiellino e decise di fondare una casa editrice per ripubblicarlo. Da allora si sono moltiplicate le traduzioni in varie lingue ed è cresciuto l’interesse per questo autore singolare, perfettamente in sintonia con le avanguardie europee. Lui del resto aveva ben chiari i motivi del rifiuto degli ambienti letterari tradizionali: «Conosco a fondo la strategia letteraria e la disprezzo. Mi fa pena l’ingenuità dei miei contemporanei e la rispetto. Inoltre ho la pretesa di non ripetermi mai, e di non chiedere in prestito glorie altrui, di essere sempre vergine, e questo narcisismo si paga molto caro».

 

(Pubblicato su Storie che sembrano false e invece sono vere, Prospektiva n. 54.)

 

Standard
Traduzioni, Yehya, Yehya traduzioni

Naief Yehya, L’offensiva di Natale

Era la notte di Natale, non c’era niente di più appropriato per finire un’annata grama che andare a mangiare il tacchino da mia sorella e da quello spaccone di mio cognato. Ero senza lavoro da sei mesi, mia moglie se n’era andata, voleva divorziare ed era incinta del mio amico Efraín. Mia sorella aveva insistito perché non passassi la serata da solo. Non avevo voglia di ascoltare le fanfaronate di mio cognato sui suoi affari e le sue conoscenze, ma mi passò per la testa l’idea meschina che, oltre alla cena gratis, magari mi avrebbe proposto un lavoro. Ero veramente disperato.

Arrivai di buon’ora all’appartamentino dei miei parenti. L’albero natalizio e le decorazioni rendevano ancora più opprimente e claustrofobica la pesante atmosfera che sovrastava l’arredamento. Poche volte ho visto una tale densità di statuette di porcellana, metri quadrati di velluto e apparecchi elettronici in così poco spazio. I miei nipoti uscirono dalla loro stanza e appena videro che ero arrivato a mani vuote fecero dietrofront e scomparvero dietro la porta senza dire una parola.

Continue reading

Standard
Traduzioni, Zurita, Zurita traduzioni

Raúl Zurita, Gli esclusi

Il titolo di questo pezzo è lo stesso di uno straziante romanzo di Elfriede Jelinek (Die Ausgesperrten, del 1980, mai tradotto in italiano). Me ne sono ricordato a proposito di un nuovo vangelo che si va facendo strada nel nostro mondo: quello della meritocrazia. Esiste una logica del disastro, e consiste nell’opporgli concetti che rendano questo disastro meno evidente, per fare in modo che possa apparire addirittura come un successo. È il ruolo di questa nuova parola. Il suo volto contraffatto è la cancellazione di circa quattro miliardi di persone che in questo vangelo sono di troppo, vale a dire, più o meno l’Africa intera, i quattro quinti dell’America latina e, naturalmente, buona parte dei cileni.

Continue reading

Standard
Quiroga, Quiroga traduzioni, Traduzioni

Horacio Quiroga, Gli emigranti

L’uomo e la donna camminavano dalle quattro del mattino. Il tempo, che si era guastato nella soffocante calma che precede la tempesta, rendeva ancor più opprimente i vapori mefitici dell’estuario. Infine cadde la pioggia e per un’ora la coppia, inzuppata fino alle ossa, continuò ostinatamente ad andare avanti.La pioggia cessò. L’uomo e la donna si guardarono allora con angoscia e disperazione.

«Te la senti di camminare ancora un po’?», disse lui. «Magari li raggiungiamo…»

La donna, pallida e con occhiaie profonde, scosse la testa.

«Andiamo», rispose riprendendo a camminare.

Ma poco dopo si fermò, tutta contratta, e si aggrappò a un ramo. L’uomo, che la precedeva, si voltò nel sentirla gemere.

«Non ce la faccio più!…», mormorò lei con una smorfia sulle labbra, grondando sudore. «Ah, Dio mio!…»

L’uomo, dopo essersi guardato intorno, si convinse di non poter fare nulla. Sua moglie era incinta. Allora, senza sapere dove andare, stravolto per le troppe disgrazie, tagliò dei rami, li distese per terra e ci fece coricare sopra la moglie. Poi si sedette in modo da tenere in grembo la sua testa.

Trascorse un quarto d’ora di silenzio. Poi la donna fu percorsa da un profondo brivido, dopo di che l’uomo ebbe bisogno di tutta la propria forza per domare quel corpo violentemente scosso dall’eclampsia.

Passata la crisi, rimase ancora un momento sopra la moglie, con le ginocchia sulle sue braccia. Infine si alzò, si allontanò di qualche passo barcollando, si batté il pugno sulla fronte e poi riprese di nuovo in grembo la testa della moglie, immersa in quel momento in un profondo sopore.

Vi fu un altro attacco di convulsioni e alla fine la donna rimase immobile. Dopo un po’ ne ebbe un altro, ma quando finì, finì anche la sua vita.

L’uomo se ne rese conto mentre era ancora a cavalcioni sopra la moglie e raccoglieva tutte le forze per bloccare i suoi spasmi. Rimase atterrito, gli occhi fissi sulla schiuma che le usciva di bocca, le cui bolle sanguinolente venivano via via riassorbite dalla nera cavità.

Senza sapere quello che stava facendo, le toccò la guancia con il dito.

«Carlota!», disse con una vocina infantile, priva di qualsiasi intonazione. Il suono delle proprie parole lo fece tornare in sé e rialzandosi si guardò intorno da ogni parte con occhi smarriti.

«È una disgrazia troppo grossa», mormorò.

«È una disgrazia troppo grossa…», mormorò un’altra volta, mentre si sforzava di capire quello che era successo. Venivano dall’Europa; su questo non c’erano dubbi; e avevano lasciato laggiù il loro primogenito, di due anni. Sua moglie era incinta e volevano andare a Makallé insieme ad altri compagni di viaggio… Erano rimasti indietro e da soli perché lei camminava con difficoltà… E forse perché stava male… forse sua moglie si sarebbe potuta trovare in pericolo…

E si voltò di scatto, con uno sguardo allucinato: «Morta, lì!…»

Si sedette di nuovo, si rimise la testa morta della moglie sulle cosce e per quattro ore pensò a quello che avrebbe fatto.

Non arrivò a nessuna conclusione, ma quando scese la sera si caricò la moglie in spalla e prese la via del ritorno.

Costeggiarono un’altra volta l’estuario. Il canneto si estendeva senza fine nella notte argentata, immobile, tutta un ronzio di zanzare. L’uomo, con la testa china, tenne un buon passo, finché d’un tratto la moglie gli scivolò giù dalle spalle. Lui rimase un secondo in piedi, rigido, e poi crollò vicino a lei.

Quando si svegliò, il sole scottava. Mangiò bacche di filodendro, anche se avrebbe voluto qualcosa di più nutriente, dato che sarebbero passati ancora dei giorni prima che potesse seppellire in un terreno consacrato il cadavere della sposa.

Si rimise in spalla il corpo, ma le forze gli venivano meno. Allora lo avvolse con delle liane intrecciate, ne fece un fardello e in questo modo proseguì facendo meno fatica.

Per tre giorni l’uomo, fermandosi a riposare e poi riprendendo la sua strada, sotto il cielo bianco di calore, divorato dagli insetti di notte, continuò a camminare, reso sonnambulo dalla fame, avvelenato dai miasmi del cadavere, concentrato su quella che era la sua missione, un’idea ostinata: portare via il corpo adorato della moglie da quel paese ostile e selvaggio.La mattina del quarto giorno si vide costretto a fermarsi, e solo nel pomeriggio poté riprendere a camminare. Ma quando il sole scese sotto l’orizzonte, i suoi nervi estenuati furono scossi da un brivido profondo, e allora distese il cadavere per terra e vi si sedette accanto.Era ormai notte fonda, e l’atmosfera di quel luogo remoto era riempita dal monotono ronzio delle zanzare. L’uomo avrebbe potuto sentirle tessere la loro rete pungente sul suo volto, ma i brividi che gli salivano lungo la colonna vertebrale gelata aumentavano in continuazione.Sopra l’estuario era sorta infine la luna calante color ocra. Le canne alte e dritte luccicavano fino all’orizzonte formando un funebre mare giallognolo. La febbre malarica ora gli era salita altissima.L’uomo diede un’occhiata all’orribile massa bianchiccia che giaceva al suo fianco e intrecciando le dita intorno alle ginocchia si mise a fissare, dritto davanti a sé, l’estuario velenoso nel quale il suo delirio dipingeva in lontananza un villaggio della Slesia a cui lui e la moglie, Carlota Phoenig, tornavano felici e ricchi a riprendersi il loro adorato primogenito.

 

(Tratto dalla raccolta El salvaje, pubblicata nel 1920. Pubblicato sul blog delle edizioni Sur.)

Standard