Approfondimenti, Borges, Borges approfonimenti

Borges, l’antipatico

Non saprei dire con precisione il momento in cui ho dovuto confessare a me stesso, non senza una sorta di stupore, che Borges, Jorge Luis Borges, lo scrittore che avevo amato da ragazzo soprattutto per i racconti di Finzioni, mi era profondamente, visceralmente antipatico. E faccio fatica anche a ricordare se questa antipatia sia nata e si sia consolidata poco a poco, o se sia trattato invece di una rivelazione improvvisa.

Forse all’origine c’è un famoso aneddoto che non riesco peraltro a situare temporalmente nella biografia di Borges. Eccolo. Al termine di una delle tante conferenze che tenne in qualche biblioteca di provincia (o in una sala della capitale), fu avvicinato da una signora che, dopo entusiastici complimenti, gli confessò ingenuamente: «Sa, anch’io scrivo…». E lui: «Ah sì? E a chi?».

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Castellanos Moya, Castellanos Moya recensioni, Recensioni

Horacio Castellanos Moya, L’uomo arma

«Nel plotone mi chiamavano Robocop. Ho fatto parte del battaglione Acahuapa, delle truppe di assalto, ma quando la guerra è finita, mi hanno smobilitato. E sono rimasto senza niente: i miei unici averi erano due fucili AK-47, un M-16, una dozzina di caricatori, otto granate a frammentazione, la mia pistola nove millimetri e, d’indennizzo, un assegno equivalente a tre mesi di salario.»

Questo l’incipit del monologo di Juan Alberto García, detto Robocop (come il cyborg del film di Verhoeven), 1,90 d’altezza, 120 libbre. Non è facile per lui accettare la «democratizzazione», riciclarsi come «civile»: sa soltanto combattere e uccidere. Così, ruba una Golf e rapina una villa ammazzando una coppia di vecchietti. È l’inaugurazione di una carriera criminale costellata di tradimenti: prima va a letto con la moglie del cugino, poi con una puttana che non esiterà a uccidere temendo una spiata; entra in un gruppo paramilitare al servizio dei narcotrafficanti, ma è pronto a vuotare il sacco per arruolarsi nella lotta antidroga…

L’uomo arma è scritto in prima persona con un linguaggio secco, aspro e privo di connotazioni emotive, impassibile e cinico come il protagonista. Lo scenario è il San Salvador, mai nominato, ma potremmo trovarci in Honduras, Nicaragua, Guatemala, e gli anni sono quelli delle guerre civili e delle violenze che hanno imperversato in quei paesi.

Horacio Castellanos Moya, salvadoregno, ne sa qualcosa, essendo costretto a vivere all’estero dopo le minacce di morte ricevute in patria. Con cinque romanzi e due raccolte di racconti, tutti di grande livello, ha saputo creare un mondo proprio cambiando continuamente registro silistico e si è imposto come uno degli autori più importanti e originali del Centroamerica, erede dei maestri del «realismo sucio» Arlt e Onetti. Di lui Roberto Bolaño ha detto: «Castellanos Moya è un malinconico e scrive come se vivesse nel cratere di qualcuno dei tanti vulcani del suo paese. Questa frase sa di realismo magico. Eppure non c’è niente di magico nei suoi libri, salvo forse la sua forza stilistica». (Traduzione e nota finale di Nicoletta Santoni, La Nuova Frontiera.)

 

(Pubblicato su Pulp-libri)

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Fuentes, Fuentes recensioni, Recensioni

Carlos Fuentes, Le relazioni lontane

Durante un pranzo all’Automobil club di Parigi, l’anziano e sofisticato conte Branly racconta al narratore (che nelle pagine finali si rivelerà essere Carlos Fuentes stesso) la storia di Hugo Heredia, un archeologo messicano che ha perso la moglie e un figlio in un incidente aereo. Rimasto solo col figlio minore quattordicenne, Victor, che intende educare al “disprezzo per gli uomini e al rispetto per le pietre”, lo compiace in un curioso gioco: quando si trovano in una nuova città cercano sull’elenco telefonico eventuali omonimi. Così a Parigi, ospiti di Branly, si imbattono in un Victor Heredia di mezz’età, che vive con il figlio Andrés in un castello già appartenuto ad Alexandre Dumas. L’incontro e la permanenza nel castello hanno conseguenze assolutamente imprevedibili per i protagonisti (e per il lettore): Hugo rientra in patria abbandonando il figlio, che finirà fra le braccia del coetaneo Andrés, e Branly si immerge in un’impietosa autoanalisi, mentre il mistero che avvolge la biografia dell’Heredia francese (ogni biografia, sembra suggerire Fuentes) si allarga a macchia d’olio e assume tinte soprannaturali, tipiche di un racconto gotico di fantasmi. Le relazioni lontane è del 1980, si ricollega idealmente ad Aura e appartiene allo stesso ciclo narrativo, “Il male del tempo”. Romanzo complesso, sconcertante per certi versi, strettamente imparentato con la tradizione del “realismo magico” latinoamericano, offre molteplici piani di lettura (non ultimo quello biografico, dato che Fuentes è stato ambasciatore del Messico a Parigi) e innumerevoli motivi di riflessione, dal ruolo della memoria individuale e storica al senso e al destino della letteratura, dagli esiti del “meticciato” culturale fra Europa e America Latina all’interrogazione metafisico-onirica sul significato delle cose ultime. “Niente muore del tutto se non perché, criminalmente, noi lo condanniamo a morte dimenticandolo: l’oblio è l’unica morte, la presenza del passato nel presente è l’unica vita.”

 

(Pubblicato su Pulp-libri.)

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Ramirez, Ramirez traduzioni, Traduzioni

José Luis Ramírez (RAM), Tijuana Express

Al giorno d’oggi non ti puoi fidare di nessuno.

Se gli dài il cuore ti rendono un pezzo di carne macinata, per strada trovi una busta di coca a cinquanta pesos e per quattro biglietti da cinquanta ti procuro dell’estasi, una dose di morfa a duecentocinquanta, i dischi a uno e venti; uscire con qualcuno è come farsi una busta di coca, ma se vuoi fare sesso devi calcolare anche l’hotel, o aspettare che non ci sia nessuno in casa; ad ogni modo bisogna ancora pagare i preservativi, meglio spendere un venti in farmacia che duecentocinquanta per una visita medica, meglio masturbarsi e mettere nel salvadanaio i soldi del mese.

Cosa vuoi di più?

Fare i conti in fretta è come usare una calcolatrice, mi ci vogliono trenta testoni e non riesco neanche a mettere assieme il primo; però ho la quarantacinque di papà, il passamontagna che mamma ha portato dal Chiapas; ancora una volta: cosa vuoi di più? Tutti abbiamo visto i film di Tarantino, perciò sappiamo come si fa «a terra, cazzo, questa è una rapina» la pistola puntata su ciascun cliente del minimarket «a terra, puttana, a terra» le dita scorrono in fretta le banconote, ogni notte sono dieci, cento, mille pesos; una scorta di birra appena uscita dal frigo; le voci degli amici che urlano sbellicandosi dalle risate «non sfottere, quello sfigato dello sbirro s’è pisciato sotto» il cozzo delle bottiglie una contro l’altra, la schiuma, il suo sapore amaro; in un modo o nell’altro bisogna tener duro fino a mettere insieme i trenta testoni «andiamo a cercare dell’estasi, ti va?» le banconote ben ripiegate e infilate nella borsa «no, io ci rinuncio maschioni» i capelli viola, la risata secca «vengo via con te, perché no».

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Diez, Diez interviste

Rolo Diez, Intervista

Ho incontrato Rolo Diez in luglio alla Semana Negra di Gijón, dove ha vinto il premio Umbriel con Papel picado (Coriandoli), e in settembre lo ritrovo ad Asti, alla VII edizione di “Chiaroscuro”, dove presenta Il passo della tigre, il suo quinto romanzo tradotto (da E. Mogavero) e pubblicato come gli altri da Tropea. Rolo – Rolando Aurelio – è nato a Buenos Aires nel 1940, ma è stato costretto a lasciare il suo paese dopo l’avvento al potere dei militari, che lo avevano tenuto in carcere due anni. Dopo varie peregrinazioni in Europa si è stabilito in Messico, ha collaborato con varie testate giornalistiche e con i suoi romanzi è diventato uno dei più apprezzati esponenti della cosiddetta letteratura «argen-mex».

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