Al giorno d’oggi non ti puoi fidare di nessuno.
Se gli dài il cuore ti rendono un pezzo di carne macinata, per strada trovi una busta di coca a cinquanta pesos e per quattro biglietti da cinquanta ti procuro dell’estasi, una dose di morfa a duecentocinquanta, i dischi a uno e venti; uscire con qualcuno è come farsi una busta di coca, ma se vuoi fare sesso devi calcolare anche l’hotel, o aspettare che non ci sia nessuno in casa; ad ogni modo bisogna ancora pagare i preservativi, meglio spendere un venti in farmacia che duecentocinquanta per una visita medica, meglio masturbarsi e mettere nel salvadanaio i soldi del mese.
Cosa vuoi di più?
Fare i conti in fretta è come usare una calcolatrice, mi ci vogliono trenta testoni e non riesco neanche a mettere assieme il primo; però ho la quarantacinque di papà, il passamontagna che mamma ha portato dal Chiapas; ancora una volta: cosa vuoi di più? Tutti abbiamo visto i film di Tarantino, perciò sappiamo come si fa «a terra, cazzo, questa è una rapina» la pistola puntata su ciascun cliente del minimarket «a terra, puttana, a terra» le dita scorrono in fretta le banconote, ogni notte sono dieci, cento, mille pesos; una scorta di birra appena uscita dal frigo; le voci degli amici che urlano sbellicandosi dalle risate «non sfottere, quello sfigato dello sbirro s’è pisciato sotto» il cozzo delle bottiglie una contro l’altra, la schiuma, il suo sapore amaro; in un modo o nell’altro bisogna tener duro fino a mettere insieme i trenta testoni «andiamo a cercare dell’estasi, ti va?» le banconote ben ripiegate e infilate nella borsa «no, io ci rinuncio maschioni» i capelli viola, la risata secca «vengo via con te, perché no».
Risate da sbronzi, il soprannome di biscia le sta a pennello; chiappe sode, mangiacazzi, dicono che va con chiunque ma non è vero, non va con quelli che si impastigliano di anfe; le piacciono la maria, la coca, la morfa; però niente pastiglie, perché le «fanno schifo fin da piccola» «sarai sempre una mocciosa» «come vuoi» ribatte lei «c’è la tua vecchia?» «è a Puebla, ma torna presto» scrolla le spalle, cosa vuoi di più?
Siamo abituati a scopare in silenzio.
Il letto non ha piedi per non far rumore quando oscilla e per non perderci niente sotto; il problema è che a lei piace un casino scherzare mentre lo facciamo, e siccome io sono un po’ scemo non riesco a trattenere le risate, è bellissimo; soprattutto quando lei porta della morfa «ecco qui, bello, serviti» e io non capisco se allude alla siringa o al suo corpo «non darci troppo dentro, biscia, e se fai una frittata?» il piercing all’ombelico «be’, non mi spiacerebbe affatto, perché no?» l’ago nella vena.
Il massimo è contare la grana di mattina «quanto hai?» il tatuaggio sul braccio le risalta in modo pazzesco «venti testoni» «sul serio?» «sul serio, sfigata d’una biscia, sì, uno di questi giorni mi ritiro» «come no, e poi ti sposerai e avrai un sacco di bambini» «non sfottere, se tutto quel che voglio è andarmene a Tijuana» la sua faccia si scompone in una smorfia in cui s’impastano sorpresa e suspence «e che ci vai a fare da quelle parti?» il suo seno coperto dal lenzuolo, una traccia di emozione nella mia risposta «vado a farmi un notebook, so qualcosa d’informatica e con un po’ di fortuna mi monto un business» «sfigato che non sei altro, a Tijuana per cominciare ti alleggeriscono della grana, e poi un notebook costa una cifra, no?» mi abbraccia, il lenzuolo lo abbandona alla pressione dei due corpi, «ma sì, fottuta biscia, però che ci sto a fare qui?»
No future in mexico city.
«da Tijuana me ne vado a San Diego o arrivo fino a Ensenada, posso fare un business e incontrare qualcuno che mi dà delle dritte, no? dicono che i chicanos fanno un sacco di grana con i computer» «sì, però…» «però cosa? sfigata d’una biscia» «be’, io ho conosciuto un tipo che è stato ammazzato, così, su due piedi, era seduto davanti al suo computer e… niente, un fottuto attacco come di epilessia e ha tirato le cuoia, non credere, coglione, li fanno anche fuori» «non rompere, vuoi portarmi sfiga?» «ehi, ti sto parlando da sorella, con quei soldi è meglio che ti ci compri una macchina, bello» «per fare il tassista? neanche morto» «già, perché non ti piacerebbe farti una scopata sul sedile posteriore, all’american way» «con te?» un semplice gesto la rivela sicura di sé «forse pensi di non farcela, maschione?» «fissata che non sei altro, adesso vestiti che tra un po’ arriva la mia vecchia…»
Trenta notti, trenta testoni.
I minimarket sono una bella fonte di entrate «mi dia sei lattine di birra» «quindici pesos, giovanotto» le faccio vedere un biglietto da cento e apre la cassa, la quarantacinque sul collo «a terra, puttana» le mani in alto senza che glielo ordini, è quasi istintivo, l’hanno visto in troppi film, l’hanno già fatto tante volte; i miei amici arraffano le birre dal frigo e la biscia mi dà una pacca sul culo, poi comincia a rovesciare la roba dagli scaffali; l’affascina il caos, il rumore dei barattoli e della plastica sul pavimento.
Puzza di pneumatici bruciati, i semafori rossi li ignoriamo.
«Yes!» quel balordo del Beto rompe il finestrino con la testa, poi vomita la sua overdose sulla portiera, alla fine l’auto è rubata «trenta testoni, biscia» l’eccitazione è qualcosa di più di un pene gonfio di sangue «trenta fottuti testoni»
Le nostre lingue si allacciano quando uniamo le labbra, la quarantacinque non ha altro modo di far festa: sputa; l’altro giorno in due minuti nel negozio «ventiseimiladuecento, giovanotto, più l’iva» «lo so» un pizzico d’ironia nel sorriso «accetta contanti?» il viola dei biglietti è una chiave per il paradiso «senza imballaggio, me lo porto via così»
Plastica contro plastica nella valigetta.
Il cellulare l’ho già comprato.
«Che te ne pare, biscia? thinkpad dell’ibm» i tasti neri come la nostra coscienza «klamath due e cinquanta e pci migliorato, 128 mega di ram» riesco a malapena a sopportare l’emozione e l’ansia per approfittare di lei, accarezzarle le spalle e baciarle la nuca, è solo un modo come un altro per prendere l’iniziativa «modem usb, lo stato dell’arte, biscia, the fucking state of the art»
«gran bell’aggeggio»
Il mio braccio intorno alla sua vita.
«ho sempre il meglio, no?»
Si limita a far segno di sì, quella notte non andò diversamente dal solito.
Tijuana.
Presi l’espresso alla stazione nord, un giorno e mezzo di viaggio, la batteria del portatile durava solo dodici ore; non salutai mia madre, andai a trovare papà per l’ultima volta sulla sua tomba «sono già a Tijuana, biscia» telefono pubblico «sfigato, ti fregheranno il lap».
Mi manca la dolcezza delle sue tette. Mi manca lei.
«prima devono farmi fuori, biscia»
«proprio questo dico, coglione, che ti ammazzeranno»
«succederà quello che deve succedere»
Tijuana non è granché diversa dal Districto Federal. Solo per via del fiume, e dei reticolati; graffiti in una lingua figlia dell’inglese e dello spanish, i ragazzi non hanno i capelli lunghi ma sono rapati come reclute, le ragazze portano mini e top strapples anche se sono grassottelle, anche se sono magroline. I tacos a Tijuana li fanno con tortilla di farina «quindici pesos, amico» «quello due dollari» «di manzo, pollo, montone» farmacopea di neon e luci al sodio, qualche stella, un motel sulla strada «solo, amico? ho delle ragazzine al bar, se le va» una pausa studiata male «di quindici anni».
Di quindici, dodici, venti, la mia ragazza aveva diciassette anni la prima volta; risposi freddamente che quella notte volevo restare solo; non era vero, nemmeno quando mentivo alla biscia. Non volevo mai restare solo, non mi è mai piaciuto; la solitudine era un tatuaggio che mi aveva imposto il destino senza che io credessi nel destino, senza che credessi in niente, in niente, solo in lei.
Le tette della biscia che somigliavano moltissimo a quelle dell’altra.
Cosa vuoi di più? Morire d’amore non vuol sempre dire smettere di vivere; collego il notebook e mi corico sul letto, carne macinata, il modem urla un ronzio di bytes che si adattano al cellulare, l’analogia è perfetta per lo stato delle mie viscere, il cursore nero segnala a intermittenza la sua negligenza, i suoi battiti di palpebra catturano l’umidità dei miei occhi.
So fucking what?
Schiacciare il tasto di enter non è più difficile che tirare il grilletto, lo stesso rumore, lo stesso effetto dell’adrenalina nel sangue, il giorno dopo sono solo uno con gli occhi pesti in più, un altro turista in cerca di un bar, un altro coglione rovinato dal backpack.
Al bar domando di un tizio che chiamano select, il barista mi dà una birra senza che gliela chieda, mi fa un cenno col mento «grazie, eh» un dollaro sul bancone, la prima cosa che ho fatto oggi è stata «dipingere» i miei soldi di verde «solo così ti muovi a Tijuana, amico» un paio di tasti e il computer del motel ha sputato il valore del dollaro all’aeroporto, ha verificato le mie banconote con un sensore di ultravioletti che stava sul bancone, mi ha raccontato la storia di uno che era diventato milionario vendendo dollari falsi «qui è tutto verde, amico, meglio che ci fai l’abitudine».
Al tavolo ci sono tre tizi; scuri di capelli, magri, tre chicanos, chiunque con un po’ di cervello si sarebbe tenuto alla larga, c’erano ottimi motivi, la biscia mi aveva raccontato di lui e di quelli che aveva «fatto svanire». «sto cercando il select» dico «dipende per conto di chi» «per conto della cagna, amico» «chi?» «nel D.F. la chiamano biscia, ha detto che la conoscevi» «la cagna… eh, ne conosco tante» «questa era la ragazza del tuo amico, quello a cui hanno bruciato il cervello».
Gran sorriso, molte porte si aprono senza chiave «e come sta “la cagna”, amico» «benissimo» «spero proprio di sì, viene a letto con te?» «diciamo che mi ama» «già, quella cagna ama tutti quanti; cosa ti porta a Tijuana?» il resto della chiacchierata sono bytes e altre bagattelle «forza, dài» ci vollero altre due birre per convincermi a tirar fuori il portatile «anche per molto meno di questo, amico» la conversazione gira intorno ai tipi che aveva ucciso per tenersi il computer «vale un sacco di quattrini, eh» «per questo sono venuto, amico, perché siano abbastanza» «rischi grosso, amico» un segnale e uno dei chicanos mi mette una lama al collo, ho addosso gli occhi di tutto il bar, morbo monocromo, una mossa di judo imparata in strada; un colpo nelle reni, il ginocchio ficcato nella schiena, i polsi immobilizzati dalla mia presa «chi non rischia non guadagna niente, no?»
Vendetti il cellulare.
Questo dopo averne denunciato il furto e aver recuperato i soldi dell’assicurazione; dal notebook tirai fuori tutto quel che potevo in tre settimane «ehi amico, magari le ragazze ti si aprissero come ti si aprono i computer» last login: 16 aprile 1974 «vecchio mio, ma quella rete non c’era ancora nel ’74» unable to locate host «gliel’avevo detto, metta i soldi sul mio conto, altrimenti addio intranet» ritiri pure la sua tessera «che tessera, commendatore?» il cassiere vomita banconote mentre mi scollego.
Solo Tijuana, il fiume incanalato in pareti di cemento, sotto ponti, carcasse di auto, chicanos, graffiti; il tatuaggio me lo sono guadagnato prendendo a calci un poliziotto, fracassandogli una spalla «adesso basta amico, fermati, fermati coglione!» le nike che si riempivano di terra e di sangue, sirene «lascialo perdere, andiamo, andiamo»
Un gesto universalmente osceno.
Labirinti.
Conoscere Tijuana vuol dire sapere di un buco che stamattina non c’era, scavalcare cancellate, attraversare il viale mentre le auto hanno il semaforo verde.
L’appartamento di Jerry, i colpetti sulla porta del bagno «ehi, aspetta» nel lavabo c’è l’ipodermica, la fiamma dello zippo scalda il cucchiaio; collegarsi alla rete, rimorchiare una tipa, «cucinare» la droga; la routine spezzata dall’insistenza con cui bussano alla porta «è per oggi, amico, sei in tivù»
La mia immagine riflessa rivela sorpresa, apro la porta; mi basta affacciarmi per vedere lo zenith a ventun pollici, la siringa fra le dita, silenzio. Nella stanza tutti mi voltano le spalle, eppure mi guardano; la prospettiva del poliziotto mentre lo pestavo. Era morto all’ospedale, soltanto il suo impianto non aveva subito danni. Smart eye, tecnologia Minolta. Fra tutti i poliziotti di Tijuana, dovevo ammazzarne proprio uno con gli occhi da cyborg «merda» l’unica cosa che riuscii a fare fu bucarmi.
«dài, andiamocene in spiaggia»
Mi avevano appena fatto il tatuaggio e dovevo già allontanarmi, il notebook nella valigetta, i cavi ingarbugliati nell’anarchia di sempre. Il motorino si ficca nel cuore della notte, la pelle irritata; il select mi aveva salutato con il gesto della sua banda, meglio così; per centomila verdoni mi sarei consegnato anche da solo; soltanto una coppia di fanali intermittenti, rumore di aerei, rumore di auto, la baia di Ensenada nera come una notte senza stelle.
Mi nascosero in una pensione.
Aspettai una notte prima di violare Ensenada.
Un colpo solo e il vetro si sbriciola, sirena d’allarme; la prima cosa da fare è tagliare il cavo, le pinze da elettricista non incontrano resistenza nel rame, poi la corrente tramite un ponte arriva fino al computer; il ronzio del ventilatore, il rumore della tastiera, un kilobyte. Non c’è niente di più facile da rubare delle informazioni, di un pasticcino, di un biglietto aereo; la notte mi avvolge appena esco dall’agenzia di viaggi.
ladatel, la tessera bianca e un chip che sembra una decalcomania, il viso della biscia in differita a causa della distanza e della risoluzione di telnor, una nike che gioca nella polvere «hallo?» «che cosa fai venerdì, biscia» «però, torni presto bello» «macché, ti ho comprato un biglietto per questo fine settimana, alle otto, puoi ritirarlo in qualsiasi agenzia, è a tuo nome, volo 305 dell’aerocalifornia» «sul serio?» posso solo dire di sì «sono a Ensenada, c’è un diretto dall’aeroporto ogni ora, ti lascia in un hotel sulla costa, ci vediamo lì, va bene?» ci mette un secondo a rispondere «d’accordo» ammutolisco, quello che sto per dirle mi costa, è da un bel po’ che non lo dico «Carmen» mi punta addosso gli occhi dal monitor, non avevo mai pronunciato il suo nome fino a quel momento «ti amo».
Non mi azzardai a vedere o ascoltare la sua risposta, staccai.
I vantaggi della distanza e di tenere un dito sul tasto giusto.
Era mercoledì, ma mi bastarono la mia stanza nella pensione, i videogiochi e una bottiglia di Sauza per disfarmi di quel pomeriggio e di tutto il giovedì. Non mi ero portato morfa, la storiella di sempre dei tossici «arrivava la madama e l’ho mollata appena in tempo, e cosa credi, furbone, certo che ho mollato la morfa»
Lei aveva solo una sacca; indumenti intimi, jeans, magliette; quando tirò fuori le fiale e l’ipodermica le domandai come aveva fatto a passare la dogana, dicono che non passa niente in quell’aeroporto, se appena gli sembri sospetto ti rivoltano sottosopra; alla stazione dei treni era il contrario, nemmeno uno sbirro per controllare i bagagli. Risata secca, una ricetta falsa però vera «sono diabetica» lo dice mentre spezza il collo della fialetta, poi apre la confezione di plastipack «è insulina» l’arco delle sue sopracciglia si solleva al massimo come l’embolo, morfa di farmacia «serviti, bello» non c’è bisogno di prepararla.
Lei era il chiodo che si sarebbe spezzato nell’inutile tentativo di scacciarne un altro, un chiodo lungo venti centimetri conficcato non nelle mie mani, ma nel costato, come se la faretra di cupido fosse rimasta senza frecce e lui mi avesse scagliato quel che aveva a portata di mano; che cosa avrei potuto trovare in città se non quel chiodo arrugginito e opaco che era la biscia, i suoi seni che somigliavano moltissimo a quelli dell’altra ragazza che ho avuto.
Voglio dire, vivevo nel D.F., rubavo nei minimarket, mi sono procurato una consolle, sono venuto a Tijuana, ho ammazzato il poliziotto; fin qui mi seguite, no? Allora è successo che ho rubato un biglietto d’aereo, ho parlato alla biscia, le ho detto che l’amavo e lei è venuta a Ensenada, abbiamo passato un fine settimana fantastico; tenendoci per mano, facendo l’amore, mangiando cibi della cucina cinese, frutti di mare, bevendo birra Corona; due teenager in più che si inoltravano nel buio del molo, acqua Evian, la bottiglia di tequila a sei dollari e trenta.
Lasciate che vi dica un’altra cosa dell’Ensenada, non è come altre spiagge, c’è quella baia aperta e grigia, l’acciaio delle navi coperto di graffiti, un bacio; sì, avreste dovuto vedere quel bacio, solo così potreste capire questa storia.
La bottiglia vuota, non cola più nemmeno una goccia, il braccio teso al massimo nello sforzo prima di scagliarla in alto; non c’erano luci, avevamo solo gli scafi corrosi delle imbarcazioni, il rumore di un colpo sull’acciaio e l’eco che si ripeteva da solo, quel che voglio dire è che tutto era perfetto fino a quel momento, fin lì la storia aveva un lieto fine ed era questo: il silenzio dopo l’eco, l’assenza di stelle, l’estetica occulta del suo viso, delle sue labbra, il bacio.
Fate conto che la storia finisca qui.
E non ha niente a che vedere con Tijuana, non ha niente a che vedere con il Districto Federal, voglio dire, voi non potete immaginare; non ha niente a che vedere con quanto costa una busta di roba, una pastiglia di estasi, una dose di morfa, o con la quarantacinque, le rapine ai minimarket, il computer, il viaggio a Tijuana, l’occhio elettronico, il tatuaggio, il motorino; immaginate che non ha niente a che vedere con un imbecille che sbuca dal nulla e dopo averci separati punta la pistola al collo della biscia e spara, il sangue le esce a fiotti e quell’imbecille ci si bagna la faccia «questo è per il poliziotto, amico» poi mi guarda negli occhi e ride «e queste sono gratis» una pallottola in ogni ginocchio, espansive, ecco perché hanno spappolato la testa della biscia; non è giusto, vero? Dopodiché sono finito in un ospedale psichiatrico. Realtà virtuale. Un’urna a forma di anfiteatro, ti collegano un sacco di cavi prima d’infilarti dentro; elettrodi sul petto, sul cranio, in fronte, un liquido nella vena cubitale; i polsi legati stretti con il velcro, una realtà diversa programmata su misura. Una bella realtà. Il cielo blu, le notti piene di stelle, cosa vuoi di più? fra tutte le realtà che ho vissuto questa è la più bella, ogni tanto penso a Tijuana, ogni tanto al Districto Federal, a quella ragazza che ho avuto, nient’altro, alla biscia non ci penso mai, se noi sarei rovinato del tutto.