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Mario Levrero, un «escritor raro»

Dopo Il romanzo luminoso, nella traduzione di Maria Nicola, Calabuig (un marchio Jaca Book) ha fatto uscire alla chetichella a fine luglio un altro titolo di Mario Levrero: Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo, tradotto stavolta da Sara Cavarero. Se il primo era un romanzo di 500 pagine (quasi 700 nell’edizione italiana) uscito nel 2005, un anno dopo la morte dell’autore, questo – pubblicato per la prima volta nel 1975 – non arriva a 90. Ma ci sono ben altre differenze, assai più sostanziali, che i lettori scopriranno da sé. Io ne riparlerò presto qui, nel frattempo ripropongo un post scritto per il blog di Sur nel giugno del 2012, dove si può leggere anche un racconto di Levrero tradotto da Loris Tassi, «Una confusione nel noir»: http://www.edizionisur.it/sotto-il-vulcano/25-06-2012/un-escritor-raro-mario-levrero/

 

Fu un celebre e autorevole critico letterario, Ángel Rama, a coniare la definizione di «escritores raros» per un gruppo di scrittori uruguyani non riconducibili ad alcuna corrente letteraria preesistente. Del resto, a rigore non si può parlare nemmeno di «gruppo»: non firmarono manifesti né diedero vita a movimenti o riviste, e a ben vedere sono accomunati soltanto da un’ispirazione surrealista in senso lato. Il più famoso fu senz’altro Felisberto Hernández, solo recentemente riscattato dall’oblio dalla Nuova Frontiera (Nessuno accendeva le lampade, tr. di Francesca Lazzarato), insieme a José Pedro Díaz, Armonía Somers e pochi altri, fra cui Mario Levrero (1940-2004).

Alla fine degli anni Ottanta mi capitò fra le mani una curiosa antologia, Lo mejor de la ciencia-ficción latinoamericana. Il curatore era uno studioso belga che riuscì a farla pubblicare in Germania e in Spagna grazie al sostegno del celebre scrittore di s-f A.E. Van Vogt, che scrisse un’introduzione e mise il proprio nome in copertina. Il racconto che mi colpì di più fu A caza de conejos, che non era affatto un racconto di fantascienza, e nemmeno un fantasy, e per dirla tutta non rientrava plausibilmente in nessun genere identificabile. In 100 mini-capitoli Levrero descrive un mondo fatto di impensabili conigli, cacciatori e guardaboschi che non ha nulla da invidiare all’invenzione cortazariana dei cronopios e dei fama, un universo atroce nella sua assurdità ma fondamentalmente ludico e spassoso. (Il racconto poi lo tradussi e chiesi a Levrero il permesso di utilizzarlo per un progetto di antologia. Volle vedere la traduzione, mi chiese qualche chiarimento e mi suggerì alcune modifiche, dopodiché la nostra corrispondenza mail si interruppe e di lì a poco mi giunse notizia della sua morte.)

È iniziato così un percorso di avvicinamento all’opera di questo «escritor raro» che non si è ancora concluso, anche perché fino a poco tempo fa era difficile reperire alcuni suoi testi, che tuttavia cominciano a essere riediti; nel frattempo è uscito un testo postumo, La novela luminosa, che si affianca a una produzione ampia e variegata: i romanzi della cosiddetta «trilogia involontaria»: La ciudadParísEl lugar, e poi El alma de GardelDejen todos en mis manos, oltre alle raccolte di racconti: La máquina de peensar en GladysAguas salobresIrrupciones, il «diario» El discurso vacío, e infine i due folletines Nick Carter se divierte mientras el lector es asesinado y yo agonizo, e La banda del Cempiés.

Levrero però merita un discorso più ampio: ci torneremo. Ho comunque una buona notizia: qualcuno in Italia si è accorto della sua esistenza: Loris Tassi, che ha tradotto e inserito un suo racconto nella bella antologia Inchiostro sangue. Antologia di racconti e saggi del Rio de la Plata (a cura di Loris Tassi e Antonella De Laurentis), Edizioni Arcoiris. Intanto è interessante l’idea di riunire in un libro racconti e saggi che vertono sulla tematica del poliziesco, ingaggiando un corpo a corpo fra i testi e la critica. Poi, insieme a nomi imprescindibili (Ricardo Piglia, che vi figura sia con un saggio sia con un racconto, Juan José Saer, Horacio Quiroga, Mempo Giardinelli, Juan Sasturain) fanno capolino autori ancora sconosciuti da noi, come Carlos Gamerro e appunto Mario Levrero.

 

Tre brevi racconti di Mario Levrero

 

A seguire tre brevi testi tradotti da me. Il primo, senza titolo, è una delle sue Irrupciones, una rubrica che ha tenuto dal 1996 al 2000 sulle pagine culturali della rivista Posdata, e che recentemente sono state edite in volume; è la rivendicazione di una vocazione autentica, un testo commovente tenuto conto delle vicissitudini dell’autore.  Gli altri due sono di ispirazione decisamente più ludica, anche se Storia senza ritorno ha un finale decisamente inquietante in perfetto stile levrriano. Un assaggio e un invito a conoscere questo scrittore eccentrico che dalla sua tomba a Montevideo guadagna sempre nuovi apprezzamenti critici e schiere di lettori entusiasti.

 

Senza titolo

 

Per un’intera mattinata cerco fra gli annunci economici del quotidiano; il compito mi sembra più spossante che trasportare sacchi di cemento. È un linguaggio criptico, quasi impossibile da decifrare, e al tempo stesso ciò che si riesce a capire dipinge a poco a poco un panorama troppo cupo del mondo, e di me stesso, perché io possa sopportarlo senza farmi violenza. C’è qualcosa che mi rode dentro e ne sento gli effetti sotto forma di dolori muscolari alla schiena, alle spalle, alla nuca e a tutto l’apparato psichico. Cado in preda a una profonda depressione. Avverto, e non è la prima volta, che vivo in un mondo diverso da quello in cui vive la maggior parte della gente, e sento questo fatto come un’insuperabile inferiorità e, in ogni caso, come qualcosa che preferirei ignorare, o dimenticare. Alla fine, dopo aver letto e riletto gli annunci, ne segno uno, l’unico che ero in grado di capire e a cui potevo tentare di rispondere; richiedevano una persona più o meno della mia età, senza specificare nient’altro. Bisognava presentarsi e vedere. Nel pomeriggio indosso abito e cravatta, articoli che uso solo in occasioni speciali. Il posto non era lontano da casa, abbastanza centrale, probabilmente, se ricordo bene in calle Yaguarón, fra Colonia e Mercedes, o forse Uruguay. Mi aspettavo di trovare un locale commerciale aperto al pubblico, o almeno qualche cartello, e con ogni probabilità una lunga fila di postulanti. All’indirizzo indicato non c’era niente di speciale, né anima viva; solo un androne deserto. Porte alte di legno polveroso, ben fatte ma mal tenute. Una era chiusa, l’altra aperta. Dentro, dopo un corto atrio, iniziava una scala che si arrampicava al primo piano. Continuo a camminare, senza fermarmi. Mi sento la colonna vertebrale rigida e dolorante, e il terrore mi corrode l’anima. Io non posso entrare lì; qualcosa me lo impedisce. Non posso fare una cosa del genere, non devo farla; me lo proibisce qualche principio segreto e decisivo. Vado fino all’angolo, poi mi giro e dirigo di nuovo i miei passi verso l’androne. Devo farlo, mi dico, devo provarci, devo almeno verificare di cosa si tratta. Arrivato all’androne, non mi fermo. La stessa forza segreta, il principio inaccessibile, mi guida senza esitare: non fermarti, non devi farlo. È più forte di me. E allora, dal fondo dell’anima mi arriva la mia stessa voce che dice: ha ragione, non devo entrare lì, non sono fatto per queste cose, devo cercare di compiere il mio destino e smettere di fantasticare sulla normalità. Sollevato, ma esausto, inizio il lento ritorno a casa. Per strada mi tolgo la cravatta. Non cambio andatura, ma nella mia immaginazione sento che sto correndo e saltando. Dio mi aiuterà, Dio non permetterà che io resti senza un tetto né che patisca la fame. Scusami, Dio mio, se ho perso la fede in un attimo di follia. Non cercherò più di sfuggire ai miei doveri. Non continuerò a cercare un lavoro. Non penserò più a smettere di scrivere.

 

Quel liquido verde

 

Suonano alla porta. Non aspetto nessuno; mi sorprende che suonino. Comunque, apro. C’è una ragazza in uniforme con gli occhi verdi; sorride, mostra una valigetta e dice: «Mi permette di entrare? È una dimostrazione gratuita a domicilio».

Non ci penso su; mi faccio da parte e lei entra aprendo la valigetta: Estrae una pezza e un flacone, ma io non le bado ancora; dietro di lei entra un clown che si piazza al centro della stanza reggendosi sulle mani, e fuori c’è altra gente.

La ragazza inumidisce la pezza con il contenuto del flacone – un liquido verde – e comincia a passarla su un tavolo, sfregando lentamente con movimenti circolari. È entrata una coppia di equilibristi che fanno numeri straordinari; uno consiste nel dondolarsi, appesi al lampadario a gocce, compiere un giro completo per aria e cadere in piedi facendo un inchino; ma io sto attento al domatore che entra con un leone e una tigre (che ruggiscono con pericolosi borborigmi stomacali), e poi la cavallerizza in piedi sul cavallo, e i cammelli, la giraffa e l’elefante; quest’ultimo rimane incastrato nella porta, malgrado il direttore abbia aperto le due ante. L’elefante ha un’espressione penosa mentre il domatore e il clown lo spingono fuori per disincastrarlo; poi lo spingono di nuovo dentro, schiacciandolo un po’, e riescono a farlo passare. Ci mancava il motociclista suicida che fa irruzione con un rombo infernale, a gran velocità; corre sulle pareti e persino sul soffitto. Mi avvicino alla ragazza e le dico che ne ho abbastanza della sua dimostrazione a domicilio, che non mi interessa più, che in ogni caso non devo comprare nessun prodotto, che sta perdendo il suo tempo, e io il mio. Non si arrabbia; sorride, interrompe i suoi movimenti circolari, mette via le sue cose, mi saluta ed esce. Mentre scende le scale mi affaccio e le urlo:

«E si porti via anche il suo circo, perdio!»

«Il mio circo?» domanda stupita. «Che dice? Quella gente non è venuta con me.»

 

Storia senza ritorno

 

Un cane, Campeon. Vivevo da solo con lui e arrivò a infastidirmi. Lo portai nel bosco, lo lasciai legato con una corda che avrebbe potuto rompere con un po’ di perseveranza e tornai a casa.

Nel giro di un paio di giorni era lì che raspava alla porta; lo lasciai entrare.

Mi diventò insopportabile; lo portai in un bosco più lontano e lo legai a un albero con una corda più grossa (sapevo che il difetto non stava nella corda ma nella fedeltà dell’animale, forse avevo la segreta speranza che questa volta non riuscisse a liberarsi e morisse di fame).

Tornò qualche giorno dopo.

Allora capii che il cane sarebbe tornato sempre. Non osavo ammazzarlo per timore dei rimorsi; e pensai che, anche se fossi effettivamente riuscito a perderlo in un bosco ancora più lontano, avrei vissuto nella costante paura del suo ritorno; avrebbe tormentato le mie notti e offuscato i miei momenti di gioia; mi avrebbe incatenato di più la sua assenza che la sua presenza.

Allora esitai appena un istante di fronte alla maestà del bosco compatto che si alzava davanti ai miei occhi – tenebroso, imponente, sconosciuto –; risolutamente cominciai a inoltrarmi e continuai a farlo finché, finalmente, mi persi.

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