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Julio Cortázar di César Aira

Nacque nel 1914 in Belgio, dove si trovavano casualmente i suoi genitori argentini. La famiglia rimase bloccata lì durante la Grande guerra, al termine della quale rientrò a Buenos Aires. L’infanzia dello scrittore trascorse a Banfield, in un ambiente del ceto medio che sarebbe diventato, cristallizzato per sempre, lo scenario sempre più anacronistico di molti dei suoi racconti. Fece gli studi magistrali e divenne professore di lettere. Insegnò nelle scuole medie di Bolívar e Chivilcoy, paesi della provincia di Buenos Aires, e nelle università di Tucumán e Mendoza. Fra il 1946 e il 1949 lavorò presso la Cámara del Libro. Nel 1951, grazie a una borsa di studio, se ne andò a Parigi, dove abitò fino alla morte; lavorò come traduttore per organismi internazionali. La sua militanza politica (su posizioni di sinistra romantiche sostenute con ardore e lealtà adolescenziali) lo portò in varie occasioni a Cuba e negli ultimi anni in Nicaragua. Tornò un paio di volte in Argentina, l’ultima quando era già malato, per rivedere la madre. Morì a Parigi nel 1984.
Prima di allontanarsi dall’Argentina, Cortázar pubblicò un volume di poesie (Presencias, del 1938, sonetti mallarmeiani) che firmò con lo pseudonimo “Julio Denis”, e un poema drammatico, Los reyes (1949). L’anno della sua partenza, il 1951, apparve Bestiario, libro di racconti che per stile, procedimenti, tematica e qualità, potrebbe essere intercambiabile con l’ultimo che scrisse, trent’anni dopo, anche se i suoi racconti più famosi, e forse i migliori, continuano a essere quelli del primo libro. Non c’è stata una maturazione visibile in Cortázar; un’aria di perenne gioventù avvolge tutta la sua opera, indiscutibilmente preferita dai giovani, lettura di iniziazione e di scoperta della letteratura. I suoi racconti, sicuramente il meglio della sua opera, si trovano in sette volumi: Bestiario (1951), Final de juego (1956), Las armas secretas (1959), Todos los fuegos el fuego (1966), Octaedro (1974), Alguien que anda por ahí (1977) e Queremos tanto a Glenda (1980). Con i suoi alti e bassi (senza mai arrivare agli estremi in un caso come nell’altro), il suo centinaio e passa di racconti costituisce un viaggio nella fiction che vale la pena di fare. Quanto ai romanzi: Los premios (1960) è una sorta di allegoria dello snobismo argentino; Rayuela (1963) suscitò a suo tempo e per tutti gli anni Sessanta un’impareggiabile ammirazione; accumula tre progetti: romanzo “di Parigi”, baudelariano-surrealista, secondo il modello di Nadja [di André Breton, del 1928, rivisto e ripubblicato nel 1963; ndt]; romanzo dell’esilio, con il suo corrispondente riflesso “dall’altra parte”; e romanzo nel romanzo, con la scoperta delle carte inedite di uno scrittore alla Macedonio Fernández. 62 modelo para armar (1968), più sperimentale, è una derivazione del precedente; mentre Libro de Manuel è una fallimentare incursione nel campo della politica. All’elenco dei suoi romanzi bisognerebbe aggiungere Los autonautas de la cosmopista (1982), racconto di una performance realizzata con la sua terza moglie, Carole Dunlop. Historias de cronopios y de famas (1962), uno dei suoi libri più popolari, e Un tal Lucas (1979) riuniscono racconti e testi brevi di vari genere, e condividono un tono umoristico. La vuelta al día en ochenta mundos (1967) e Último Round (1969) sono suggestive miscellanee.

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