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Mastro Pérez l’organista

di Gustavo Adolfo Bécquer

Ho sentito raccontare questa leggenda a Siviglia da una perpetua nell’atrio del convento di Santa Inés, mentre aspettavo che cominciasse la messa di mezzanotte. 

Naturalmente, dopo averla ascoltata, attendevo con impazienza l’inizio della cerimonia, ansioso di assistere a un avvenimento prodigioso. 

Invece, niente di meno prodigioso dell’organo di Santa Inés, e niente di più triviale degli insulsi inni che l’organista ci offrì quella notte. 

Uscendo dalla messa, non potei fare a meno di dire alla perpetua in tono ironico: 

«Come mai ora l’organo di mastro Pérez suona così male?»

«Toh!» rispose la vecchia. «Perché non è il suo.» 

«Non è il suo? E quello che fine ha fatto?» 

«È andato in pezzi per la vecchiaia, un bel po’ di anni fa.» 

«E l’anima dell’organista?» 

«Non è più riapparsa dopo che ci hanno messo quello che lo sostituisce.» 

Se a qualcuno dei miei lettori, dopo aver letto questa storia, venisse in mente di rivolgermi la stessa domanda, già sa perché il prodigio miracoloso non è continuato fino ai nostri giorni. 

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José Luis Ramírez (RAM), Tijuana Express

Al giorno d’oggi non ti puoi fidare di nessuno.

Se gli dài il cuore ti rendono un pezzo di carne macinata, per strada trovi una busta di coca a cinquanta pesos e per quattro biglietti da cinquanta ti procuro dell’estasi, una dose di morfa a duecentocinquanta, i dischi a uno e venti; uscire con qualcuno è come farsi una busta di coca, ma se vuoi fare sesso devi calcolare anche l’hotel, o aspettare che non ci sia nessuno in casa; ad ogni modo bisogna ancora pagare i preservativi, meglio spendere un venti in farmacia che duecentocinquanta per una visita medica, meglio masturbarsi e mettere nel salvadanaio i soldi del mese.

Cosa vuoi di più?

Fare i conti in fretta è come usare una calcolatrice, mi ci vogliono trenta testoni e non riesco neanche a mettere assieme il primo; però ho la quarantacinque di papà, il passamontagna che mamma ha portato dal Chiapas; ancora una volta: cosa vuoi di più? Tutti abbiamo visto i film di Tarantino, perciò sappiamo come si fa «a terra, cazzo, questa è una rapina» la pistola puntata su ciascun cliente del minimarket «a terra, puttana, a terra» le dita scorrono in fretta le banconote, ogni notte sono dieci, cento, mille pesos; una scorta di birra appena uscita dal frigo; le voci degli amici che urlano sbellicandosi dalle risate «non sfottere, quello sfigato dello sbirro s’è pisciato sotto» il cozzo delle bottiglie una contro l’altra, la schiuma, il suo sapore amaro; in un modo o nell’altro bisogna tener duro fino a mettere insieme i trenta testoni «andiamo a cercare dell’estasi, ti va?» le banconote ben ripiegate e infilate nella borsa «no, io ci rinuncio maschioni» i capelli viola, la risata secca «vengo via con te, perché no».

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Enrique Serna, Uomo con minotauro sul petto

(seconda parte)

Mi svegliai quarantotto ore dopo in un sotterraneo maleodorante. Immagino che mi avessero dato una dose di sonnifero capace di stordire un cammello. Non vidi mai in faccia i sequestratori. Temendo che potessi identificarli, quando mi portavano da mangiare indossavano maschere di Paperino. Disteso in un giaciglio pidocchioso, sentivo il gocciolio della pioggia, gli squilli di un telefono, il lontano ronzio dei tram. A tormentarmi, più della scomodità, era non sapere quale sarebbe stato il mio destino. Avrebbero chiesto un riscatto alle autorità di New Blackwood? Mi avrebbero strappato la pelle per venderla al mercato nero?

Recuperai la serenità quando uno dei rapitori ebbe la bontà di dirmi che mi trovavo ad Amburgo. Il mio furto era stato un lavoretto commissionato dal magnate tedesco Heinrich Kranz, meglio conosciuto come il Re delle Nevi per la sua implicazione nel traffico internazionale di cocaina. Kranz aveva ordinato di non portarmi via dal sotterraneo fino al giorno del compleanno della moglie: voleva farle una sorpresa. Venni condotto con gli occhi bendati in un castello nella Selva Nera – la casa in campagna di Kranz – dove si teneva la festa. In un salone enorme, illuminato con gli effetti pirotecnici di una discoteca, era riunito il fior fiore dei corrotti del jet set europeo. Appena mi ripresi dalla vertigine iniziale, contemplai inorridito alcune sagome che in seguito mi sarebbero divenute familiari.

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Enrique Serna, Uomo con minotauro sul petto

(prima parte)

Voglio raccontare la storia del bambino che chiese un autografo a Picasso. Come tutti sanno, all’inizio degli anni ’50 Picasso viveva a Cannes e ogni mattina prendeva il sole sulla spiaggia La Californie. Il suo passatempo preferito era giocare con i bambini che facevano castelli di sabbia. Un turista, notando quanto gli piaceva la compagnia infantile, mandò il figlio a chiedergli un autografo. Dopo aver ascoltato la richiesta del piccolo, Picasso guardò con disprezzo l’uomo che lo usava come intermediario. Se c’era una cosa che detestava della celebrità era che la gente comprasse la sua firma e non i suoi quadri. Fingendosi deliziato dalla grazia del bambino, chiese al padre il permesso di portarlo nel suo studio per regalargli un disegno. Il turista diede il consenso più che volentieri, e mezz’ora più tardi vide tornare il figlio con un minotauro tatuato sul petto. Picasso gli aveva concesso la firma tanto desiderata, ma impressa sulla pelle del bambino per impedirgli di farne commercio. Questo, mutatis mutandis, è l’aneddoto che raccontano i biografi del pittore di Málaga. Tutti celebrano l’episodio, convinti che Picasso abbia impartito una lezione ai mercanti d’arte. Da tempo avrei dovuto contraddirli, ma divulgare la verità non mi conveniva.

Adesso non posso più starmene zitto. So che maneggiano informazioni di seconda mano. So che mentono. E lo so perché il bambino del tatuaggio ero io, e la mia vita è una prova irrefutabile del fatto che la rapacità dei mercanti ha trionfato su Picasso. Tanto per cominciare, voglio mettere in chiaro che mio padre non era un turista né si è mai preso una vacanza fin quando ho vissuto al suo fianco. Sia lui che mia madre erano nati a Cannes, dove lavoravano come guardiani nella villa della signora Reeves, un’obesa milionaria cinquantenne, americana naturalmente, che passava le estati in Costa Azzurra e per il resto del tempo divideva il suo ozio – un ozio tanto grande da non trovare posto in una sola città – fra Firenze, Parigi, Valparaíso e New York. Eravamo una famiglia di cattolici praticanti a cui Dio ogni anno concedeva un figlio, e dato che le nostre entrate, insensibili al precetto biblico, non crescevano né si moltiplicavano, soffrivamo una miseria che a lungo andare arrivò a sfiorare la denutrizione. Mio padre aveva visto sul giornale la foto di Picasso e pensò di poter guadagnare qualche soldo con l’autografo. Lo scherzo del pittore non lo scoraggiò.

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Virgilio Piñera, La battaglia

La battaglia sarebbe iniziata con precisione matematica alle undici del mattino. I generalissimi di entrambi gli eserciti si vantavano dell’efficienza e del coraggio dei loro soldati, e se si fosse dato credito all’entusiasmo dei generalissimi si sarebbe caduti nel grave errore logico di supporre che dovessero verificarsi inevitabilmente due vittorie. Tuttavia, seguendo queste stesse deduzioni logiche, bisogna ammettere che qualcosa di strano cominciava a deformare quelle concezioni. Per esempio, il generalissimo dell’esercito trincerato sulla collina mostrò un evidente disappunto nel constatare, cronometro in mano, che alle undici e cinque minuti non era ancora avvenuto l’indebolimento delle difese esterne del suo esercito da parte dell’aviazione nemica. Tutto questo era così insolito, contravveniva talmente allo spirito di regolarità della battaglia, che senza poter nascondere i propri timori prese il telefono da campo per comunicarlo al rivale, il generalissimo dell’altro esercito, trincerato a sua volta nell’ampia pianura di fronte alla succitata collina. Questi rispose altrettanto angosciato. Erano già trascorsi cinque minuti e l’indebolimento delle difese esterne non dava segno di iniziare. Impossibile cominciare la battaglia senza questa operazione preparatoria. Le cose però si complicarono perché i carristi si rifiutarono di dare l’assalto. I generalissimi pensarono al procedimento sbrigativo della fucilazione. Neanche questo fu possibile portare a termine. I generalissimi si ritrovarono d’accordo sul fatto che il rifiuto di combattere non derivava dalle cause che si riassumono nella ben nota frase: “basso morale delle truppe…”. Allo scopo di dare un esempio di disciplina e ubbidienza alla causa militare, i generalissimi intrapresero una singolare battaglia: alla guida ciascuno di un grande carro armato si scontrarono come due giganti. Il combattimento fu breve e morirono entrambi. Davanti a uno specchietto appeso a un treppiedi, un soldato si radeva. Un gatto enorme gironzolava intorno a un paracadute aperto.

Il cane mascotte delle truppe trincerate nella pianura mordicchiava con indolenza una mano del generalissimo trincerato sulla collina. Non era arrischiato supporre che alle dodici e un quarto la battaglia non era ancora iniziata.

 

Il racconto “La batalla”, del 1944, fa parte della raccolta Cuentos fríos. Su Virgilio Piñera si può leggere qui la voce che gli ha dedicato César Aira nel suo Diccionario. Un racconto di Piñera è stato pubblicato sul blog di Sur.

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