L’Avana mi parla. Quante volte il nome dell’Avana sarà comparso nel titolo di un libro? Se mi limito alla mia libreria, trovo fra gli altri: La trilogia sporca dell’Avana e Il re dell’Avana di Pedro Juan Gutiérrez, L’Avana per un infante defunto di Guillermo Cabrera Infante, Il nostro agente all’Avana di Graham Green e, rimanendo nel catalogo di Ventanas, Morte all’Avana di Rubén Gallo. Per non parlare di tutti i libri cubani ambientati nella capitale, romanzi o saggi che siano.
Ma L’Avana mi parla è un romanzo o un saggio? L’autore era un sostenitore della fusione fra i generi (o della loro definitiva uscita di scena) e dunque presentò La ciudad que heredamos (questo il titolo originale dell’opera, pubblicata a Cuba nel 2019) come un “libro”: né romanzo né saggio né diario né album di memorie, ma un po’ di tutte queste cose.
Per certi versi si tratta di un classico romanzo di formazione: il nipote è guidato dal nonno a conoscere l’Avana, e insieme tanti segreti della vita. Sono entrambi originari di Santiago e la scoperta della capitale, dei suoi luoghi storici caratteristici e degli angoli più nascosti, avviene camminando. A un certo punto il nonno propone addirittura, fra il serio e il faceto, la fondazione di un Ordine sulla falsariga di quelli medievali: l’Ordine dei Camminatori. Autentico psicogeografo, incarna fedelmente la figura e la filosofia del flaneur descritta da Baudelaire, teorizzata da Benjamin, praticata da Walser e poi sistematizzata dall’Internazionale Situazionista, verso la fine degli anni ’60. Guy Debord e compari proponevano un metodo per conoscere la forma in cui una città influenzava la psiche dei suoi abitanti (e viceversa) e suggerivano un’esperienza nuova, accessibile a chiunque: vivere più intensamente la città andando alla deriva, senza una rotta precisa, lasciandosi catturare dalla sua bellezza e rendendola più a misura d’uomo. Non a caso uno dei personaggi caratteristici della storia recente dell’isola è Andarín – l’appellativo è eloquente –, una sorta di Forrest Gump, un postino dell’isola nonché maratoneta che partecipò anche alle Olimpiadi negli USA. Camminava o correva accanto a un calesse o dietro un’auto per mettere alla prova la propria resistenza, senza sosta, e lo fece fino a prima di morire a ottant’anni.
Un concetto centrale nelle lezioni del nonno è quello della “sovrapposizione”; alla visione reale e attuale dell’Avana si può sovrapporre quella della città storica: “da questa porta, che adesso non esiste più, entravano, dai vicini orti, gli schiavi”; oppure di una città fantasticata, o impressa nel ricordo… Queste sovrapposizioni possono provocare vere e proprie epifanie, momenti estatici generati da un profumo di fiori o di frutta, dal grido di una venditrice ambulante o dal chiasso dei bambini. Ecco il modo per abitare una città, per impadronirsene.
E così veniamo a sapere come venne fondata e fortificata L’Avana, e come poi vennero abbattute le mura ormai inservibili, l’importanza delle banane nell’alimentazione (e non solo), il fenomeno dei suicidi fra i coolies cinesi, che si sottraevano in questo modo a uno sfruttamento bestiale, i viaggi nella guagua, il tram cittadino…
Un opportuno elenco in calce al libro mi esime dal menzionare qui i poeti, gli scrittori e i pittori cubani citati. Fra gli stranieri, basterà ricordare Simone de Beauvoir e Julio Cortázar, oltre ai numerosi viaggiatori che rimasero a vivere a Cuba e lasciarono libri di memorie.
Mi soffermerò soltanto su una persona molto importante nella vita di Arrufat: l’amico e maestro Virgilio Piñera. Poeta, drammaturgo, autore di romanzi, racconti e saggi, fu una figura centrale della letteratura cubana della seconda metà del ‘900. Formava una triade con Lezama Lima e Alejo Carpentier. Come Lezama, e per gli stessi motivi – l’omosessualità e la non conformità con l’andazzo del regime castrista – fu silenziato per molti anni. In effetti, l’unico libro di Arrufat che avevo letto era Virgilio Piñera entre él y yo, nel quale racconta la loro intima amicizia e rilegge l’opera di Piñera con equidistanza critica. Commoventi le pagine dedicate al ricordo delle serate letterarie che riunivano gli scrittori censurati dal regime, che solo in tali occasioni, con mille precauzioni, potevano leggere le loro opere in case private. A differenza di Piñera, che morì nell’oscurità più totale e che dovette attendere molti anni prima che fossero pubblicate le sue opere, Arrufat, che come lui decise di non lasciare mai l’isola, alla fine, dopo 14 anni di vessazioni, venne “perdonato” e perfino omaggiato con un appartamento dove poteva tenere lezioni e conferenze. Questo fatto gli è costato molte critiche: c’è chi lo ha accusato di compromessi con il regime, ma Laura Putti, la traduttrice e editrice dell’Avana mi parla, che è stata una sua cara amica, assicura che non è così e ha deciso di rendergli omaggio pubblicando questo libro, che arricchisce la nostra conoscenza della storia e della letteratura cubana.