Gardini, Gardini traduzioni, Traduzioni

Carlos Gardini, Hawksville

In sintesi, si potrebbe dire che il rettangolo dello schermo

deve essere carico di emozione.

Alfred Hitchcock

Wayne Canyon non era cambiata quando tornai dal deserto. Non c’era niente nelle vie polverose, a parte cavalli, ragazzacci, ubriaconi addormentati e cani che puzzavano di sterco sotto le tettoie. Non c’era niente dietro le facciate, a parte sgualdrine, bari, imbroglioni e un delinquente che rappresentava la legge perché aveva una stella appuntata sul gilè. Pensai che quel paese presto sarebbe diventato come Hawksville, e il mio rigido accompagnatore, legato alla sella del suo cavallo, assentì con la testa in segno d’approvazione. Avevo dato la caccia a quell’uomo per giorni, e alla fine lo avevo trovato morto stecchito d’insolazione vicino a un ruscello: il suo cavallo si dissetava malinconicamente, ma lui non era arrivato all’acqua. Gli avevo messo in corpo tre pallottole per dare un risvolto eroico alla situazione. Quel carico sforacchiato valeva cinquecento dollari.

Il mio arrivo provocò un certo scompiglio nella via principale, l’unica del paese. Un mese prima il mio accompagnatore, che adesso era un cadavere taciturno, aveva fatto fuori un paio di pezzi grossi nel tentativo fallito di rubare dei cavalli. Il telegrafo ci aveva informato che quei cavalli gli occorrevano per sfuggire alla giustizia federale, che lo cercava per qualche tentativo fallito di rapinare banche. Adesso, in questa terra generosa e ugualitaria, avrebbe condiviso il cimitero con i pezzi grossi, contribuendo con la sua putrefazione al progresso del distretto più popoloso di Wayne Canyon. Alcuni mocciosi mi seguirono schiamazzando fino all’ufficio dello sceriffo. Commentavano ammirati la dimensione dei fori delle pallottole del mio accompagnatore. Lo sceriffo fece una brutta faccia quando riconobbe il cadavere e si rese conto di dover sborsare cinquecento dollari.

«Dovrà passare domani, Hunt, dopo che avrà aperto la banca. Non tengo tutto quel denaro in ufficio.»

«Capisco» dissi, strappando dalla parete il ritratto del defunto. «Troppe rapine.»

Lo sceriffo aggrottò le sopracciglia.

«Vuole una ricevuta per il cadavere?» grugnì.

«Sempre che abbia un odore migliore» risposi. Quando uscii dall’ufficio, stava arrivando un ometto miope con un abito di tweed e la macchina fotografica, per scattare foto al celebre pistolero e al suo cacciatore. Lo mandai al diavolo e me ne andai a cercare il combustibile che mi occorreva.

Mi ubriacai sei giorni di fila, e il settimo mi riposai. Mi interruppi soltanto per incassare la taglia e per spassarmela con una ragazza che chiamavano il Giglio del Deserto. Me ne stavo con il Giglio del Deserto quando mi affacciai alla finestra dell’hotel per veder passare una carovana dell’Esercito. Attraversava la via principale di malavoglia, diretta senz’altro a Fort Bravo. Un soldato rosso di capelli seduto a cassetta mi guardò invidioso, osservando avidamente la mia mano destra che stringeva una bottiglia di whisky, e la sinistra che stringeva le spalle del Giglio del Deserto. Al Giglio del Deserto piaceva lo champagne, un’invenzione francese che per me era acqua con la schiuma, ma almeno Wayne Canyon diventò Parigi per una settimana, e non era niente male essere Parigi per un paese miserabile che presto sarebbe diventato un’altra Hawksville. Il Giglio del Deserto pianse quando le annunciai che me ne andavo, e ne fui commosso, forse perché somigliava a quella ragazza del Mondo Oscuro che adoravo invano da anni. Le regalai quel che restava della taglia, facendole promettere che si sarebbe comprata un passaggio per l’Est e che mai, mai più sarebbe tornata nel Territorio. Era un giglio addolorato e malinconico, ma per un istante i suoi occhi s’illuminarono per una promessa di vita nuova.

«In qualche modo tornerò» sussurrò.

Non la capii, ma ero contento di liberarmi di quei soldi sporchi. Mi diressi a Fort Bravo, dove forse avrei trovato un impiego temporaneo come esploratore dell’Esercito, un lavoro che avevo già svolto in altre occasioni, dato che conoscevo il Territorio meglio di chiunque altro ed ero in buoni rapporti con gli indiani. Il generale Newman, una mia vecchia conoscenza, era interessato ai miei servigi. Seguii le tracce della carovana di carri che aveva attraversato Wayne Canyon un paio di giorni prima. L’aria fluttuava nella calura, e a metà mattino il sole sembrava piombo fuso. Ingollai un sorso d’acqua e buttando la testa all’indietro vidi delle macchie scure in cielo. Volteggiavano sopra un macigno in un’ansa dello Huston Creek. C’era del fumo dietro il macigno. Spronai il cavallo e filai verso il luogo segnalato dagli avvoltoi. Dietro il macigno, sull’altra sponda del letto asciutto dello Huston Creek, vidi un carro dell’Esercito in fiamme, circondato da cadaveri in uniforme pittorescamente ornati di frecce. Il fuoco vetroso crepitava nel vento. Gli avvoltoi si preparavano a pranzare, ma si allontanarono quando attraversai il letto del torrente. Un soldato inchiodato al carro da una lancia puntava ancora il fucile verso qualcosa che ormai non era più lì. Udii dei lamenti. Sapevo per esperienza che i morti non si lamentano, ma non era facile trovare qualcuno vivo in mezzo a quella carneficina. Per un momento credetti nei fantasmi, cosa non difficile per uno che era stato a Hawksville. Infine trovai quello che si lamentava sotto il carro incendiato, disteso fra i suoi compagni morti. Le tracce nella polvere indicavano che si era trascinato fin lì per ripararsi dal sole. Non c’erano altri posti all’ombra nei dintorni, ma le fiamme del carro non irradiavano precisamente frescura. Il soldato ferito aveva la giacca blu imbrattata di sangue e di terra, e il fumo gli faceva lacrimare gli occhi. Solo allora provai qualcosa di simile alla compassione. Durante la guerra avevo visto tanti di quei cadaveri ammucchiati nelle fosse comuni che i morti in uniforme non mi commuovevano, ma il dolore che c’era in quegli occhi intenerì la pietra che avevo nel petto. Era il ragazzo rosso di capelli che avevo intravisto dalla finestra dell’hotel. Gli diedi un po’ d’acqua e poi un sorso del whisky che aveva guardato con invidia dal carro mentre attraversava Wayne Canyon. Gli promisi che gli avrei portato anche una donna, e sorrise. Cercai di non guardare quel che restava di lui al di sotto del torace. Lo pregai di non parlare, ma non riuscii a farlo tacere.

«Ci hanno attaccato gli orecchi neri» ansimò. «Portavamo fucili e munizioni a Fort Bravo. Ci hanno rubato due carri di armi.»

Gli passai una sigaretta, e morì con quella tra le labbra. Decisi di dare un’occhiata intorno e di svignarmela al più presto da quel luogo pestilenziale. Le piume delle frecce, tinte di nero, confermavano che gli aggressori erano orecchi neri. Non appena mi allontanai, gli avvoltoi si gettarono sul banchetto. Sembravano felici, come chi ha appena incassato cinquecento dollari per aver liquidato il suo prossimo.

Non sapevo dove dirigermi. Potevo proseguire il viaggio per Fort Bravo e annunciare al generale Newman la mattanza di Huston Creek. Ma non mi fidavo di quell’energumeno. Se avevo imparato qualcosa durante la guerra, era che non tutti gli schiavisti indossavano l’uniforme grigia, e se avevo imparato qualcosa nel Territorio, era che non tutti i selvaggi avevano la pelle color rame. Ero sorpreso, inoltre, dal fatto che il capo Alce Veloce avesse incitato i suoi seguaci a una nuova campagna contro i bianchi. Lui aveva scatenato la propria guerra a suo tempo, ma poi aveva firmato la pace, comprendendo che era preferibile l’umiliazione personale allo sterminio del suo popolo. Molti giovani lo accusavano di essere un codardo, ma io ero stato a caccia con Alce Veloce e conoscevo il suo coraggio. La firma del trattato era un atto di rinuncia, dato che lui avrebbe preferito morire combattendo. Dopo cruente lotte contro yankee e confederati, minatori e cacciatori, speculatori e banchieri, Alce Veloce era riuscito a conservare agli orecchi neri la Valle degli Antenati, un’oasi dove godevano di una relativa indipendenza e dove risuonava ancora la voce dei patriarchi. Ma stava covando una ribellione. Se qualcuno non riusciva a fare qualcosa, molto sangue sarebbe corso nel Territorio.

Seguii le tracce dei carri rubati addentrandomi nel deserto. La sabbia rossiccia tremolava come un telone incandescente. Pensai che il deserto era ingannevole, come tutto nel nostro mondo, e forse anche nel Mondo Oscuro. Su quella superficie arida, la polvere e le rocce ribollivano di vita, una vita segreta ma resistente. Avevo imparato che lì uomini con le bisacce piene d’oro valevano meno di una lucertola, e l’avevo imparato nel modo peggiore: vedendoli morire mentre le lucertole si stiracchiavano al sole. Avevo anche imparato che lì sopravvivevano solo gli infami o gli esperti. Per ragioni di amor proprio preferivo includermi nella seconda categoria, ma la mia coscienza a volte sguazzava in vere e proprie orge di rimorso. Avevo rinunciato a parecchie cose per sentirmi meno infame, ma l’essermi votato a dar la caccia ai fuorilegge per denaro non mi avvicinava precisamente alla santità.

Quando avvistai la striscia verde della Valle degli Antenati, che contrastava con la piatta superficie rossiccia del deserto, notai che le tracce non svoltavano per di là. I carri carichi d’armi scavavano nel terreno rinsecchito solchi d’aratro, che si perdevano lontano paralleli come rozzi binari ferroviari. Si dirigevano senz’altro a ovest, verso le Montagne Blu. Era molto probabile che gli orecchi neri avessero stabilito una base operativa in qualche luogo scosceso e poco accessibile, forse nei dintorni di Penn Hill. Il sole mi riempì la testa di fiamme, che si mescolavano con le fiamme della mia memoria. Ricordai case e campi bruciati, un orizzonte di fumo marrone, e pensai ai falò che presto sarebbero divampati nel Territorio. Non potevo credere che Alce Veloce fosse il responsabile, e decisi di visitare la Valle degli Antenati. Mi lasciai dietro il deserto per inoltrarmi in una prateria erbosa. Il vento mi portò l’odore dell’acqua del fiume. Questo fiume, recitava l’antica sapienza degli orecchi neri, era un ingresso per l’altro mondo. Di sicuro, mentre scendevo lungo la riva serpeggiante, il rumore dell’acqua aveva qualcosa di sovrannaturale ai piedi della Collina dei Morti. Nel mio scoraggiamento, fu come rivivere un sogno di splendore. Mentre smontavo da cavallo per bere mi ricordai della ragazza del Mondo Oscuro, e avvicinandomi al mio riflesso avevo paura che lei fosse come quell’immagine nell’acqua: se l’avessi toccata, l’avrei soltanto fatta a pezzi. Montai a cavallo e proseguii verso l’accampamento indiano. Sull’altra sponda la collina imponeva sempre più la sua venerabile presenza. Guardando la cima, vidi me stesso seduto lassù insieme ad Alce Veloce, il giorno in cui gli avevo fatto visita la prima volta.

«Voglio mostrarti qualcosa, Occhi di Fuoco» mi aveva detto il capo. Camminammo lungo il fiume e risalimmo lentamente il pendio. Il fiume scintillava al sole. Sulla cima pianeggiante della collina, esposte al vento su alte cataste di legno, giacevano le ossa di antichi capi degli orecchi neri. Il vento cantava nelle fessure del legno, un fruscio ritmico e lento come quello di una barca nell’acqua. Alce Veloce strappò delle erbe che crescevano ai piedi delle cataste, preparò un fuoco e mise a bollire le erbe in un recipiente di terracotta. Io mi sedetti ad ammirare la valle verdeggiante. A ovest si estendeva il bordo seghettato delle Montagne Blu. Il sole calava dietro le montagne, e un chiarore intenso incendiava le nubi. Il monte Paramount splendeva come una gemma blu coronata di stelle. Alce Veloce cantava una litania. Si sedette al mio fianco con il recipiente di terracotta fra le ginocchia e aspirò il vapore elle erbe. Si strofinò la faccia come se assaporasse il vapore, mi offrì il recipiente e continuò a cantare. Inalai profondamente, il vapore aveva un gusto agrodolce. Il canto di Alce Veloce si confuse gradualmente con il canto del legno. Le Montagne Blu, il deserto e la prateria si dileguarono. Rimasero solo le nubi, il chiarore e il sole rosso. Il chiarore sfumò in nebbia. Nella nebbia apparvero dei volti, e dei corpi sotto quei volti. Erano file di persone sedute, distanti, che guardavano verso di noi. Il sole rosso diventò un riflettore bianco che ci abbagliava proiettando un potente fascio di luce.

«La mia gente» mi spiegò Alce Veloce «lo chiama il Mondo Oscuro. Esseri oscuri osservano da lì le nostre azioni. Ci considerano dèi, e a volte ci imitano.»

«Sembrano ombre» mormorai.

«Per noi sono ombre» disse Alce Veloce. «Così come noi siamo ombre per gli dèi del cielo.»

Guardai con maggior attenzione il Mondo Oscuro. Distinguevo una fila di posti a sedere dietro l’altra. Il luogo mi ricordava una chiesa o un circo. C’erano persone di ogni età, bambini che sgranocchiavano caramelle, coppie abbracciate, vecchi solitari. I loro abiti erano molto diversi dai nostri, più eleganti ma anche più poveri. C’erano dei corridoi tra i posti a sedere, e in uno di questi corridoi c’era un uomo in uniforme con una lampada in una mano e dei biglietti nell’altra.

«Adesso vedono soltanto una foschia azzurra» disse Alce Veloce «e le nostre sagome rimpicciolite dalla distanza.»

Mi soffermai su una ragazza della quinta fila. Ci guardava con qualcosa di più di un semplice interesse. Sembrava decisamente estasiata. La indicai ad Alce Veloce.

Il capo assentì.

«È bella, Sguardo Vivace» disse, e chinò la testa rattristato. «Sembra che cerchi qualcosa qui, ma dubito che lo troverà. Dubito che loro riescano a capire cosa succede.» E aggiunse con un sospiro: «A volte, su questa collina, ho scrutato il cielo cercando le anime dei miei antenati. Vedo solo nubi che si aggirano nelle pianure dell’aria. Quando si scontrano e liberano la loro pioggia, penso che stanno scatenando gloriose battaglie, incomprensibili per noi, che cerchiamo invano d’imitarle. Allora mi sento solo e abbandonato. Così devono sentirsi nel Mondo Oscuro, mentre guardano l’irraggiungibile».

«Per noi» mormorai, mentre osservavo con malinconico desiderio l’espressione bramosa della ragazza che lui chiamava Sguardo Vivace, «anche loro sono irraggiungibili.»

«Loro sono pura carne, Occhi di Fuoco. Noi siamo fatti di luce. Non dimenticarlo mai. Mentre loro sgranocchiano caramelle, noi cavalchiamo verso un glorioso The end

Adesso però, nella polvere del tramonto, mentre cavalcavo verso la valle ricordando la mattanza di Huston Creek, non mi sentivo come uno che cavalcava verso un glorioso The end. Forse era giusto che quella ragazza che mi vedeva da una sala in penombra fosse irraggiungibile. Il mio contatto avrebbe soltanto potuto farle del male. I fantasmi di Hawksville si agitavano nella mia memoria e mi toccavano le viscere con le loro dita di ghiaccio.

C’erano pochi guerrieri giovani nel villaggio degli orecchi neri. Quasi tutti gli abitanti erano bambini, donne e vecchi.

«Hanno seguito quasi tutti Corvo Bianco» mi spiegò Alce Veloce dopo che mi ebbe accolto con un abbraccio. Gli raccontai che quel mattino avevo incontrato i resti di una carovana militare attaccata dalla sua gente.

«I soldati sono tutti morti» commentai.

«È solo l’inizio» disse con amarezza Alce Veloce. «Corvo Bianco vuole sollevare tutte le tribù del Territorio, con gli orecchi neri alla testa di altre nazioni sorelle. Ha infiammato il sangue di molti giovani. Ha chiamato donnette quelli che sono rimasti con me. Ora possiede le armi. Se ottiene una vittoria, il deserto verrà concimato di cadaveri fino a diventare fertile.»

Parlava con serenità, ma ogni parola era carica di dolore. Si rendeva conto che il tempo delle guerre era finito. I bianchi sarebbero arrivati con nuove armi, e le macchine avrebbero vinto. Non vi sarebbe stata neppure la gloria, solo desolazione e sterminio. Avrebbero perduto la valle e la collina sulla quale parlavano i morti.

«Che farai adesso?» gli domandai.

«Aspettare.» disse. «Noi vecchi possiamo solo aspettare.»

Avrei voluto chiedergli di aver fiducia in me, ma temevo di offendere il suo onore di guerriero. Accettare apertamente la mia collaborazione, per lui, sarebbe stato quasi come tradire i suoi. Sotto un tramonto rosso camminavamo verso la Collina dei Morti. Le Montagne Blu brillavano come frammenti di vetro sull’orizzonte. Il monte Paramount tremolava in una foschia bianca e nera. Alce Veloce raccolse delle erbe sotto le cataste funerarie e le mise a bollire nel recipiente. Il vento cantava nel legno. Aspirammo il vapore delle erbe e il cielo si trasformò in una nebbia argentata. Nel chiarore della nebbia si affacciavano a poco a poco gli abitanti del Mondo Oscuro. Cercai Sguardo Vivace, e lei era là, che osservava ansiosa. Mi domandai chi fossero gli dèi, se noi o loro. Loro ci imitavano, ma forse le loro preferenze influivano sui nostri destini. Forse il Mondo Oscuro aveva deciso oscuramente quale sarebbe stato il nostro The end.

Quando l’effetto dell’erba svanì, il sole si era nascosto dietro le Montagne Blu. Scendemmo lungo il pendio della collina. Alce Veloce impugnò il suo arco e scagliò una freccia in cielo, in direzione di Penn Hill. La piuma nera presto fu un punto nell’aria rosata. Il capo scagliò un’altra freccia nella stessa direzione. Entrambe caddero a poca distanza da noi, una infilzata nell’altra. Indicavano entrambe la direzione di Penn Hill. Emisi un fischio d’ammirazione.

«La vecchiaia è stata benigna con i miei occhi» disse Alce Veloce con un sorriso malizioso. Ormai non era più tanto veloce, ma nelle pupille conservava il luccichio di sorpresa che gli era valso il suo nome in gioventù.

Quella notte dormii nel villaggio indiano, sotto il cielo stellato. Ero ansioso più che mai di allontanarmi dal Territorio. Pensai a Giglio del Deserto, che presto sarebbe partita per l’Est, e alla donna che mi aveva lasciato a Hawksville, che in quel momento doveva trovarsi da qualche parte. Pensai a Sguardo Vivace: chissà, forse anche lei era ansiosa di sfuggire dal proprio territorio nel Mondo Oscuro. Era chiusa in quel luogo in penombra dove osservava le nostre gesta di presunto eroismo. Forse ammirava la mia ansia di fuggire, e vi si vedeva riflessa. In un mondo o nell’altro, nessuno si rassegnava alla prigione che gli era toccata in sorte. Quel cadavere da cinquecento dollari aveva deciso di fuggire rapinando banche e cavalli, e il sole lo aveva liquidato nel deserto. Corvo Bianco aveva deciso di fuggire con una rivolta armata, un sogno di gloria che si sarebbe concluso in un incubo. Aveva acceso una scintilla; se qualcuno non la spegneva, il Territorio sarebbe arso come un mucchio di fieno. Probabilmente sarebbe stata una vigliaccata privare molti giovani di una morte gloriosa, ma io avevo già visto troppi eroi nella mia vita, e nessuno di loro era precisamente il mio idolo.

Me ne andai all’alba, senza salutare. Mi inoltrai nel deserto in cerca delle tracce del carro. Avevo calcolato che si sarebbero diretti a Penn Hill, una zona delle Montagne Blu dove c’erano ottimi posti per nascondersi. Alce Veloce, da parte sua, aveva suggerito la stessa direzione con le sue frecce. La mia meta, dunque, era stabilita in modo inequivocabile. Mi proponevo di localizzare l’accampamento dei ribelli e valutare i loro punti deboli per trasmettere l’informazione ai militari. Con qualche dato concreto, forse avrei convinto quell’imbecille di Newman ad agire in modo sensato. Se soffocavano la ribellione prima che si diffondesse, sarebbe stato possibile per la tribù conservare le sue terre e la sua relativa indipendenza. In caso contrario, la vittoria finale sarebbe andata ai banchieri e agli speculatori, che avrebbero comprato dei terreni sacri per cifre irrisorie. I carri rubati dovevano fare ampi giri per evitare le pietraie, ma un uomo da solo, senza carriaggi, poteva seguire un percorso più breve attraverso una zona impervia. Eppure ero indeciso. Non mi facevano paura le asperità del terreno, ma qualcosa di peggio. La scorciatoia passava per Hawksville. Lì erano successe molte cose, quando quel luogo era qualcosa di più che un paese fantasma. Anni addietro avevo perso del denaro a Hawksville. Anni addietro avevo ucciso un uomo, a Hawksville. Anni addietro una donna mi aveva lasciato, a Hawksville. Un passato vendicativo mi attendeva in quel lugubre abitato. Comunque, molto dipendeva dalla mia rapidità. Immaginai la Collina dei Morti rasa al suolo dalla barbarie bianca e non ebbi più dubbi.

Cavalcai tutto il giorno. Verso sera, Hawksville era uno scarabocchio nella pianura. Il sole cadeva sulle Montagne Blu, e la polvere baluginava nella luce, avvolgendo le case sconquassate in una foschia gialla come l’oro che era stato l’origine e la rovina del paese. Pochissimi filoni, ben presto esauriti, avevano fatto sì che poveri diavoli come me sognassero la bella vita, mentre predicatori sbronzi profetizzavano le fiamme e lo zolfo per quella Babilonia che era il Territorio. La cupidigia aveva fondato, promosso e condannato Hawksville, che alla fine aveva sofferto la sua poco spettacolare versione delle fiamme e dello zolfo: l’abbandono e la morte. Adesso i suoi fantasmi ululavano nella notte e si aggiravano intorno agli intrusi. Quando arrivai, faceva buio. Il vento spazzava le strade, gemendo come un cane fra le fessure. Una folla lattiginosa e pallida entrava e usciva dagli edifici in rovina. Le ombre del passato litigavano e si ubriacavano in un’incessante ripetizione di istanti morti. Nuotavano intorno a me, fluttuavano come bava tra le porte scardinate e i vetri in frantumi. Mi si avvicinò la mia stessa ombra. Ripeteva in tono di burla i miei vecchi deliri di potere e ricchezza. Mi si avvicinò l’uomo che avevo ucciso. Stringeva nelle mani pepite d’oro spettrali e muoveva le labbra in una muta protesta. Mi si avvicinò la donna che mi aveva lasciato. Mi piantava addosso gli occhi rimproverandomi per la bassezza dei miei sentimenti. Mi ricordò vagamente il Giglio del Deserto, e anche la ragazza del Mondo Oscuro. Volevo trattenermi, ma non avevo la forza per affrontare dei fantasmi. Se mi fossi fermato, mi avrebbero fatto a pezzi. Spronai il cavallo e uscii dal paese abbandonato. Filamenti vischiosi si erano appiccicati ai miei abiti e alla sella. Dopo essere salito un po’ mi fermai per prendere un caffè e guardare indietro. Hawksville era di nuovo uno scarabocchio nella pianura, ma gli occhi di quella donna mi avevano pugnalato l’anima. Mai più, dissi fra me e me, mai più tornerò a Hawksville. Un coyote lanciò un ululato sulle Montagne Blu.

Arrivai alle montagne prima dell’alba. Lasciai il cavallo in un luogo nascosto fra le rocce e presi il binocolo che avevo conservato dal periodo trascorso nell’Esercito. Come una vipera mi insinuai fra le pietre, ricordando vecchie campagne militari. Presto ebbi conferma di aver ragione. All’altezza di Penn Hill, guardie armate di fucili sorvegliavano da punti elevati. Avevano tutti le orecchie tinte, e questo significava che erano orecchi neri sul piede di guerra. Avanzai fin dove lo ritenni prudente, mi appiattii contro una roccia e scrutai la zona con il binocolo. Una gola apriva un taglio fra le montagne. Su un fianco, sopra un’altura pianeggiante, erano accampati i guerrieri di Corvo Bianco. Lì si trovavano anche i due carri dell’Esercito. Lungo le pareti del passo si inerpicavano stretti sentieri. Erano ripidi, ma avevano un’ampiezza sufficiente, e pensai che i carri dovevano essere saliti di lì. A quanto pareva, i guerrieri degli orecchi neri stavano smaltendo una sbornia, e le guardie sembravano stordite. Probabilmente avevano bevuto tutta la notte per celebrare la piccola vittoria di Huston Creek e per farsi coraggio in vista di futuri combattimenti. Pensai che Alce Veloce non avrebbe mai permesso che i suoi uomini si ubriacassero.

Disegnai su un foglio la mappa dell’accampamento. Sospettavo che Corvo Bianco avrebbe cercato un trionfo iniziale ricorrendo a un espediente classico e scontato, e tuttavia infallibile con ritardati mentali come Newman. Sarebbe uscito allo scoperto per provocare le truppe di Fort Bravo e le avrebbe attirate verso la gola. Mentre i suoi uomini sarebbero sgusciati fuori dai sentieri laterali, le giacche blu sarebbero state sterminate in quella strettoia dal fuoco a volontà dei fucili che l’Esercito aveva generosamente regalato ai ribelli. Con quel successo alle spalle, Corvo Bianco si sarebbe potuto pavoneggiare di fronte al resto della tribù per convincerli che potevano dominare il Territorio. Quel pezzo d’imbecille era sconfitto in partenza, ma sarebbero occorsi molti cadaveri – compreso il suo, forse – perché l’idea gli entrasse in quella testa impiumata. Mi domandavo come mai gli idioti sanguinari come Newman e Corvo Bianco riuscivano sempre a imporsi. E mi domandavo anche cosa ci stavo a fare lì, aggrappato alle pietre come uno scorpione, quando potevo starmene in qualche Parigi del deserto a dilapidare con qualche giglio malinconico il resto dei cinquecento dollari malamente guadagnati. Mentre disegnavo la mappa, mi risposi che l’idiozia era incurabile. Presi nota dei punti vulnerabili dell’accampamento. Chi fosse riuscito ad avvicinarsi di notte, appostare uomini sui fianchi e bombardare quell’altura dalla zona pianeggiante con l’artiglieria di campagna, avrebbe potuto distruggere la posizione e impedire che qualcuno fuggisse per ficcare idee esotiche nelle teste dei suoi fratelli.

Aspettai che facesse notte per scendere senza essere visto dalle guardie. Ero sporco, stanco, sudaticcio e intontito dal sole. Bramavo un sorso di whisky, ma gli orecchi tinti erano troppo vicini, e io non bevo mai in cattiva compagnia. Buttai giù un sorso d’acqua. Con l’oscurità mi allontanai dalle Montagne Blu e dall’ululato dei coyote. Tenevo il disegno in una tasca interna come se si trattasse della mappa di un tesoro. Mi diressi a Fort Bravo, ma stavolta non me la sentivo di affrontare i fantasmi di Hawksville. Decisi perciò di prendere la via più lunga, allontanandomi dalle tracce lasciate dai carri, anche se in questo modo avrei ritardato di qualche ora.

Cavalcai tutta la notte, scortato dai nuvoloni neri che si scontravano in cielo. Frustate di luce serpeggiavano all’orizzonte, seguite da tuoni che ricadevano su di me come macchine da guerra scricchiolanti. Non avrei deviato dal mio percorso se a metà mattina non avessi visto del fumo in lontananza. Volute nere giravano sulla Valle degli Antenati. Quando m’inoltrai nella prateria della valle, il vento non mi portò soltanto l’odore del fiume, ma anche quello della polvere da sparo e della carne bruciacchiata. Rimpiansi di aver tardato ore per non attraversare Hawksville.

Avevano devastato il villaggio. Le giacche blu andavano di qua e di là, inquiete come formiche in quella confusione di cadaveri e falò. Alcuni finivano gli indiani feriti, mentre altri caricavano su un carro i soldati morti. Le fiamme crepitavano furiosamente nell’aria vibrante. Il cadavere di un bambino indiano era abbracciato a un cane morto. Soldati ubriachi strattonavano un’indiana uccisa. Corpi color rame galleggiavano sul fiume, che adesso era davvero un’entrata per l’altro mondo. L’ometto miope con l’abito di tweed scattava fotografie, la testa avvolta da una fascia nera. Il generale Newman passeggiava in mezzo alla carneficina con un’aria da Napoleone, la mano infilata nel gilè. Mentre mi avvicinavo a lui, mi tremava il viso. Mi riconobbe subito.

«Hunt! Anche lei è venuto a divertirsi?»

«Che cos’è, questo, Newman?»

«È una lunga storia, Hunt. Per farla breve, si tratta di una spedizione punitiva. I selvaggi hanno attaccato una carovana dell’Esercito e rubato due carri. Ho deciso di dargli una lezione.»

Evidentemente avevo sottovalutato la stupidità di Newman. Non per niente lo avevano promosso generale.

«Una lezione? Senza cercare i colpevoli?»

«I colpevoli erano indiani, Hunt.»

Trovai Alce Veloce vicino alla sua tenda incendiata. Il suo collo era attraversato da una sciabolata, e una pallottola gli aveva aperto la fronte. Intorno a lui erano caduti diversi soldati. Impugnava ancora l’ascia nella mano rigida, e aveva l’arco ai suoi piedi. Ricordai le sue parole – siamo fatti di luce – e mi venne un nodo in gola.

«Che gliene pare, Hunt?» tuonò Newman alle mie spalle. «Ci hanno accusato di bombardare villaggi indifesi. Stavolta non abbiamo bombardato nessuno. Non c’era bisogno dell’artiglieria per schiacciare questi banditi. Oggi abbiamo lasciato i cannoni al forte per tornare ai vecchi tempi: un’antiquata carica di cavalleria, Hunt, forse una delle ultime della storia.»

«Ammirevole, generale. Qui ci sono dei bambini che sono morti di ammirazione.»

Newman non mi udì: si stava facendo bello per una foto. Guardai i soldati ubriachi.

«Si ubriacano sempre, Newman?» gli domandai mentre si metteva in posa per i posteri. «Non sapevo che avevano cambiato il regolamento.»

«Andiamo, Hunt. I ragazzi si meritano un po’ di respiro dopo un’impresa gloriosa. Non possiamo essere così rigidi.»

Senza volere, avevo portato la mano alla tasca dove tenevo la mappa con la posizione di Corvo Bianco.

«Cos’ha lì?» masticò il generale. «La mappa del tesoro? Magari ha trovato un altro filone.»

Guardai le nubi che si accalcavano una sull’altra senza rispondere. Il cielo sembrava sbronzo.

«Cosa pensa di fare adesso, Newman?» domandai.

«Di andare sulle Montagne Blu, naturalmente. Mancano i carri rubati e il grosso di questi selvaggi. Si sono nascosti senz’altro laggiù, e adesso tremano per timore delle conseguenze. Non vuol guadagnare qualche dollaro, Hunt? Ci farebbe comodo un altro esploratore, e lei conosce il Territorio meglio di chiunque altro.»

«Sono anni che ho lasciato la vita militare, Newman.»

«Ma ha ancora il binocolo, vero? Chissà che non le serva per trovare l’oro.»

«Perché no? Ho visto cose molto interessanti con quest’aggeggio.»

«Belle ragazze dei dintorni, eh?» disse Newman strizzandomi l’occhio, e ordinò a un sergente di radunare la truppa. Qualcuno mi gridò: «Sorrida!», e venni abbagliato da una fiammata. L’ometto miope mi aveva appena scattato una foto.

Se ne andarono un paio d’ore dopo. I carri più ingombranti con i morti e i feriti si diressero verso Fort Bravo. Il resto della colonna proseguì verso le Montagne Blu. I cadaveri degli indiani vennero abbandonati nella cenere e nella polvere. Sollevai il corpo di Alce Veloce e camminai verso la Collina dei Morti. La luce del cielo, resa opaca dai nuvoloni, scintillava sul fiume. Depositai Alce Veloce su una catasta, in compagnia dei suoi antenati. Il vento stonava fra la legna. In lontananza, in mezzo a un polverone rosso, il generale Newman cavalcava verso il suo stupido The end. Buttai via il foglio con la mappa. Nel giro di pochi giorni un uragano di piombo si sarebbe abbattuto sul Territorio. Al generale Newman sarebbe andata una medaglia alla memoria, mentre altri imbecilli come lui urlavano ordini di modo che qualcun altro guadagnasse altre medaglie alla memoria. Strappai un po’ di erbe ai piedi della catasta e riempii le mie bisacce. Ne misi un po’ in un recipiente di terracotta che feci bollire sul fuoco. Le nuvole in cielo sembravano cavalli. Forse Alce Veloce cavalcava già lassù fra i suoi dèi, altrettanto incomprensibile per me quanto io lo ero per gli abitanti del Mondo Oscuro. Sarei stato ugualmente irraggiungibile?

Aspirai il vapore delle erbe. Il cielo grigio divenne un telone dal quale emergevano a poco a poco le facce degli oscuri esseri del Mondo Oscuro. La ragazza della quinta fila non c’era. Qualcosa dentro di me si spaccò come un frutto marcio. Quando mi risvegliai dalla trance, una pioggia gelida spazzava la collina. Inzuppato fino alle ossa, scesi verso il villaggio. L’acqua lavava il sangue dei cadaveri. Grossi goccioloni spegnevano le fiamme che si zittivano evaporando. Violente raffiche tambureggiavano sul fiume, una marcia funebre. D’improvviso udii dei lamenti in quella musica. Cercai disperatamente nelle tende devastate, fra i corpi ammonticchiati e crivellati di colpi. Alla fine trovai una ragazza ansimante, con il viso coperto di sangue. Una pallottola l’aveva colpita di striscio alla fronte facendola svenire. Altri corpi erano caduti pietosamente su di lei. L’aiutai a rialzarsi e la condussi fuori all’aria aperta, dove la pioggia le lavò la ferita. Sotto le incrostazioni di sangue e di sporcizia scoprii a poco a poco il viso della ragazza del Mondo Oscuro. Indietreggiai di soprassalto, e anche lei si spaventò. Per tranquillizzarla, le assicurai che non le avrei fatto del male. Lei mi guardò con quell’intensità che le conoscevo così bene. Osservava tutto come se fosse appena nata. Sulle guance le scendevano delle lacrime, o forse era la pioggia. Mi abbracciò tremando per il freddo o per la felicità. Sorrideva, ma sembrava che sorridere l’addolorasse.

«Hanno ammazzato tutta la mia gente» disse all’improvviso, e stramazzò sull’erba bruciacchiata.

«Non aver paura» le dissi senza convinzione. Se mi trovavano con una ragazza indiana, ci avrebbero ammazzati tutti e due. Non si sarebbero fermati prima di aver liquidato l’ultimo orecchio nero.

«E non c’è un posto in cui nascondersi» disse lei come se mi leggesse nei pensieri.

Guardai la punta dei miei stivali infangati. Guardai l’orizzonte. La pioggia cessava, e la grande bufera cavalcava verso ovest abbracciando il sole in uno splendore di gloria.

«C’è un posto» dissi alla fine con un sorriso. «Un posto dove nessuno ci cercherà. Usciremo di lì quando questa follia sarà passata.»

Mi guardò negli occhi e capì. Mi carezzò la guancia, e io l’abbracciai stretta e la baciai a lungo.

Prima di partire svuotai le bisacce dell’erba dei morti. Ormai non m’interessavano più il Mondo Oscuro e i suoi oscuri sogni. Sullo stesso cavallo, abbracciati come il sole e la bufera, io e Sguardo Vivace ci dirigemmo a Hawksville, e presto cavalcavamo nel deserto verso un appassionato The end.

(Pubblicato su Nova SF, n. 59, 2003.)

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2 thoughts on “Carlos Gardini, Hawksville

    • RaulSchenardi says:

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