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Sosteneva un’amica su twitter qualche tempo fa che il titolo originale di un’opera dovrebbe essere tradotto fedelmente (Non ricordo se abbia usato l’espressione “alla lettera”, ma lo ritengo poco probabile.) Sta di fatto che, riflettendo su questa affermazione, sono riandato con la memoria a una serie di titoli di romanzi che ho tradotto, e sono arrivato alla conclusione che non sempre è possibile (o opportuno) tradurre un titolo “fedelmente”. Porterò qualche esempio.

pajaro_en_manoNel 2007 è uscito per la casa editrice e/o un romanzo dello spagnolo Juan Madrid il cui titolo originale era Un pájaro en la mano. Per i non ispanofoni: un pájaro è un uccello. Si può immaginare l’effetto di questo titolo tradotto letteralmente sul lettore italiano, il quale non è tenuto a sapere che allude a un refrain spagnolo: “Más vale un pájaro en la mano que ciento volando”, la cui consueta trasposizione italiana sarebbe: “Meglio una gallina oggi che un uovo domani”. Bene. Ma è plausibile un titolo come: Meglio una gallina oggi? Sconcerto del lettore, che in libreria ha preso in mano quello che gli è stato presentato come un noir. Soluzione? Essendo una storia di poliziotti corrotti, ho proposto Mele marce, a cui l’editore ha apposto un sottotitolo che non guasta e serve a chiarire ulteriormente di che cosa si tratta: “Marbella noir”.

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Due brani del falso visconte

La prima volta che affidai le mani a una manicure, la sera sarei andato al Moulin Rouge. La vecchia infermiera mi tagliò le pellicine e limò le unghie, a cui diede poi una forma lanceolata. Per finire l’opera le coprì di smalto. Le mie mani non sembravano più appartenermi. Le posai sul tavolo, di fronte allo specchio, cambiando la postura e l’illuminazione. Presi una penna, con la mancanza di scioltezza con cui si prendono le cose davanti a un fotografo, e scrissi.

Così inizia questo libro.

La sera andai al Mouin Rouge e sentii una donna vicino a me dire in spagnolo, alludendo alle mie estremità:

«Si è curato le mani come se dovesse commettere un omicidio».

 

26 settembre 18…

 

Entriamo in un mondo nuovo. Non se ne conoscono i confini geografici. Tutti i suoi istanti sono dolorosi. La luna stanotte è un vassoio infernale. È gialla e vorrebbe essere rossa come lo sputo di un titano tubercoloso.

I vitelli partoriti questa notte hanno sei zampe e gli occhi vitrei. Entreranno subito nell’eternità alcolica dei musei. I figli dei paesani più tardi porteranno in città il settimo figlio maschio, e avrà un numero sul petto, in manicomio, in prigione o all’ospedale. Questa notte, in cui il contadino si è addormentato all’ombra maligna del fico, lo tormenterà per tutta la vita.

Ristagnano nelle latrine l’acqua e la schiuma dell’orina. Nella stella degli scolatoi il cotone degli infetti ha ingollato lo scarico, provocando il vuoto e la disperazione dei canali di scolo.

I galli del vicinato si sono svegliati troppo presto e il fischio di una locomotiva – come se arrivasse attraverso una serie di serrature – graffia il silenzio.

Il pericolo si aggira nel cortile.

Gli occhi scrutano i chiavistelli ed esaminano i paletti.

Il silenzio come un campo arido.

Il silenzio come un campo seminato.

Nella cavità della mezzanotte si inasprisce il grido infantile della locomotiva. Ha cambiato binario. Il treno prosegue, gremito di malati.

Porta nei paesi del Sud le ragazzine dalle mani flosce che hanno interrotto sulla banchina le loro eterne conversazioni sulla moda, che impera anche nei sanatori.

Porta a Vichy le madri diabetiche. A Venezia, al Cairo o a Bruges porta gli innamorati del XVIII secolo. Quelli che scrivono ancora lettere d’amore. Cambiano convento, in seguito a sofferenze morali, le badesse e i seminaristi. Vanno a cercarsi un ponte o il tetto di piombo di una cattedrale, per lasciarsi cadere di lassù, gli annoiati. Due vagoni sono affollati di scolari scheletrici, inviati dai municipi di Parigi nelle colonie balneari di Berck. Il treno è guidato da un macchinista che impazzirà durante il tragitto e proseguirà senza fermarsi al capolinea. E nel vagone merci agganciato alla coda di questa magnifica conquista del progresso umano c’è un cadavere senza parenti, spedito come carico urgente, che deve arrivare a Bordeaux prima delle dieci di mattina. È il suo ultimo appuntamento.

Ecco il paesaggio dell’insonnia che mi ha ossessionato questa notte. A tenermi sveglio era la preoccupazione di veder arrivare i genitori di una minorenne che ho sedotto fra i cespugli dell’isola di fronte a Bougival, e mi sono divertito strappando con mani febbrili la fantasia di carta velina dei bambini, la stessa a cui avevo tarpato le ali quel pomeriggio nell’anima della ragazzina, lasciandovi per tutta la vita le mie impronte digitali di caprone.

 

 

Che si debba procedere a forza di falsità per ottenere un briciolo di verità? Il paradosso sembra calzare alla perfezione per il Visconte Lascano Tegui. Il titolo di visconte, naturalmente, era falso: gli fu attribuito per errore a Tunisi da una vera contessa e lui ne fece il suo nom de plume. Il cognome del resto lo aveva già modificato spezzandolo. Falso il luogo di stampa indicato sui suoi primi libri: Parigi, laddove si trattava di Buenos Aires. False, con ogni probabilità, le sue competenze di meccanico dentista, il che non gli impedì di esercitare per qualche tempo questa professione nella capitale francese. False le notizie autobiografiche consegnate nel suo libro De la elegancia mientras se duerme, pubblicato in Italia per una sciagurata decisione dell’editore con il falso titolo Sogno senza fine, capace forse di solleticare e trarre in inganno giovani fanciulle assetate di romanzi sentimentali, che devono però essere rimaste interdette di fronte al diluvio di perversioni sessuali (sempre trattate in punta di penna, peraltro).
Un falso clamoroso – architettato appunto per avere finalmente un po’ di verità – il Visconte lo compì quando, di fronte all’indifferenza o agli insulti con cui la critica aveva accolto nel 1910 una sua raccolta di poesie, decise di ripubblicarle cambiando il nome dell’autore (un gesto che avrebbe fatto gongolare i situazionisti). Per la bisogna si servì del nome del figlio omonimo di Rubén Darío. Naturalmente questa volta fu accolto da lodi entusiastiche, come aveva previsto. Il suo misurato e sardonico commento fu: «Avevo ragione: l’etichetta del libro per loro valeva di più di quello che conteneva».
Inutile dire, forse, che con tali premesse l’opera di questo avanguardista argentino cadde per molti anni nell’oblio, finché nel 1995 l’editore di Simurg non si accorse di avere fra le mani un gioiellino e decise di fondare una casa editrice per ripubblicarlo. Da allora si sono moltiplicate le traduzioni in varie lingue ed è cresciuto l’interesse per questo autore singolare, perfettamente in sintonia con le avanguardie europee. Lui del resto aveva ben chiari i motivi del rifiuto degli ambienti letterari tradizionali: «Conosco a fondo la strategia letteraria e la disprezzo. Mi fa pena l’ingenuità dei miei contemporanei e la rispetto. Inoltre ho la pretesa di non ripetermi mai, e di non chiedere in prestito glorie altrui, di essere sempre vergine, e questo narcisismo si paga molto caro».

 

(Pubblicato su Storie che sembrano false e invece sono vere, Prospektiva n. 54.)

 

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Visconte Lascano Tegui, Un dandy della pampa

«Sono estremamente imbarazzato a parlare di questo libro, che forse non sarà un capolavoro (non so bene cosa sia un capolavoro e ormai diffido di questo genere di opere), ma è sicuramente una delle cose più originali, più singolari che abbia mai letto. In cosa consiste la sua originalità? Io sento che in queste pagine c’è qualcosa di inafferrabile, che sfugge a qualsiasi definizione, a qualsiasi spiegazione». Così scriveva Francis de Miomandre nel 1930, presentando la sua traduzione dell’edizione francese di De la elegancia mientras se duerme, del Visconte di Lascano Tegui.1 L’elogio non è di maniera, e vale la pena ricordare che Miomandre – illustre ispanista d’Oltralpe, autore a sua volta di opere letterarie raffinatissime e singolari, oltre che di una miriade di articoli giornalistici – ebbe il merito di scoprire e promuovere talenti come Claudel, Gide, Valéry, Proust, e di difendere Cèline dalle accuse di turpiloquio.

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