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Jaime Saenz, Felipe Delgado

Se vi incuriosiscono gli autori eccentrici e le letterature periferiche, se amate la scrittura intrisa di poesia e non vi turba la presenza di un elevato tasso alcolico nelle pagine di un romanzo, spero non vi sia sfuggito Felipe Delgado, del boliviano Jaime Saenz (1921-1986), pubblicato l’anno scorso. Poeta lirico d’ispirazione neoromantica e di simpatie surrealiste, di contenuti ermetici e atmosfere oniriche, circondato da un’aura di “maledetto” per le sue abitudini da boéhmien e per le provocatorie dichiarazioni di simpatia per il nazismo (di cui, fortunatamente, non si trova traccia nella produzione letteraria), Saenz pubblicò questo romanzo nel 1979, suscitando in patria un forte impatto e interpretazioni divergenti. Questa biografia fittizia (forse sarebbe meglio dire autopsia) di un giovane della capitale boliviana negli anni ‘30 dispensa infatti in 700 pagine una materia densa, stratificata, che non si lascia ricondurre a schemi risaputi.

Alla morte del padre, Felipe comincia a dilapidarne l’eredità in una taverna (rovescio del mondo diurno, razionale), dove trascorre tutto il suo tempo con personaggi pittoreschi tra cui spicca l’esoterista Oblitas, immergendosi via via in una disperata ricerca di autenticità guidata unicamente dai suoi demoni interiori esacerbati dall’alcol. Né l’amore di Ramona, che presto gli viene strappata da una malattia, né l’interessamento di un amico del padre preoccupato per la sua salute mentale, che lo convince a lasciare la capitale per ritirarsi a vivere in campagna suo ospite, distoglieranno Felipe da un “programma esistenziale” che consiste nel lasciarsi vivere senza coltivare speranze e senza rifuggire dalla sofferenza, rifiutando il lavoro e qualsiasi attività che non sia una sorta di contemplazione nichilista, fino a scomparire misteriosamente. Ma l’alchimista Saenz combina con sapienza i suoi materiali, sviluppa episodi esilaranti, scolpisce figure a tutto tondo, e alla fine ci si rende conto di aver letto un inno alla vita.

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