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Pedro Juan Gutiérrez, Il nido del serpente

Tradurre un romanzo di uno scrittore di cui è già stata pubblicata in italiano parte cospicua dell’opera, e che conta su un vasto pubblico di lettori affezionati, comporta inevitabilmente un supplemento di letture e di attenzioni: non si può rischiare, per feroce attaccamento alle proprie preferenze lessicali, di rendere irriconoscibile una “voce” già familiare. Quando ho avuto fra le mani Il nido del serpente, del cubano Pedro Juan Gutiérrez, avevo già letto diversi suoi romanzi e racconti, ma per comodità (o per pigrizia) soltanto in traduzione. Questa circostanza, che in linea di massima potrebbe costituire un handicap, paradossalmente mi è stata in qualche misura d’aiuto, perché disponevo già, per così dire, della soluzione di vari problemi che mi si potevano presentare via via. Un esempio banale: alcuni termini ricorrenti e “intraducibili” erano già stati spiegati con note al piede in romanzi precedenti. (In questo lavoro di riscontro è stata preziosa la collaborazione di Gaia Panfili, redattrice per e/o.) Inoltre, l’autore è stato oltremodo gentile ed esaustivo nelle sue spiegazioni via e-mail e mi ha chiarito termini o espressioni idiomatiche particolarmente ostici.
I personaggi di Gutiérrez, infatti, si muovono nella Cuba popolare, anzi, marginale, lumpen, e il loro linguaggio è colorito, scurrile, infarcito di gergo, contaminato dall’americano; ricorrono sovente a giochi di parole, allusioni a doppio senso, ecc. E anche quando è il protagonista a prendere la parola, per raccontarci le disavventure del figlio adolescente di un gelataio rimasto senza lavoro nella Cuba dei primi anni Sessanta, lo stile è sempre secco, scarnificato, lontano mille miglia dalla tradizione letteraria barocca cubana. Non a caso la critica gli ha affibbiato l’etichetta – forse allettante per il marketing, ma non del tutto benevola – di “Bukowsky dei Caraibi”, alludendo alla comunanza di tematiche (sesso e sregolatezze, lotta per la sopravvivenza quotidiana), ma anche di scelte formali, in primis un’apparente semplicità di scrittura (che comporta in realtà un’elaborazione meticolosa).
Nel Nido del serpente il protagonista, oltre a collezionare avventure sessuali mentre si dà da fare senza troppa convinzione per sbarcare il lunario, apre gli occhi sulla realtà postrivoluzionaria ed è costretto a fare drammaticamente i conti con le proprie tendenze antisociali e i propri demoni interiori, scoprendo infine una vocazione per la libertà e la letteratura.
Il giudizio sull’esito delle illusioni suscitate dalla Rivoluzione è impietoso, e il confronto tra la retorica della burocrazia di regime e lo squallore della vita quotidiana – sempre pervaso da lampi di humour nero – non risparmia nessuno: la corruzione dei funzionari di partito, le UMAP, i campi di lavoro forzato dove venivano rinchiusi omosessuali, religiosi, hippies e dissidenti (scenario del romanzo Arturo, la stella più brillante di Reinaldo Arenas, che ho appena tradotto per L’Ancora del Mediterraneo), il moralismo ipocrita, le dissennate scelte di politica economica, come la monocoltura della canna da zucchero. Nei tre anni di ferma militare il protagonista, sempre affamato, prende le piattole, viene travestito da civile per impersonare il pubblico festoso che accoglie un capo di Stato straniero, e diventa un raccoglitore di canne. E mentre si appresta ad abbattere alberi da frutta per far posto alle piantagioni – “Era una moda. L’epoca dell’agricoltura intensiva e della meccanizzazione” –, commenta: “Non capisco perché quei contadini non ci ammazzarono. Avrebbero dovuto metterci tutti in un pentolone d’acqua bollente”. Epitaffio lapidario, come il giudizio dello scrittore cileno Roberto Bolaño, prematuramente scomparso, che si schierò a difesa di Gutiérrez: “Cuba sta male. L’America latina sta male. Gutiérrez non sembra stare molto meglio. Ma temo fortemente che resterà fedele ai suoi principi, o alla sua natura”.

 

(Pubblicato sul sito web La Nota del Traduttore.)

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