Arlt, Arlt traduzioni, Traduzioni

Roberto Arlt, Piccoli proprietari

 

Una sera Eufrasia, poco dopo aver cenato, disse a Joaquín, suo marito: «Sai? Ho l’impressione che quello che abita di fianco a noi rubi dei materiali al poveretto a cui sta costruendo la casa».

Joaquín la guardò di sbieco, cupo, con il suo occhio di vetro.

«E questa da dove la tiri fuori?»

«Perché oggi al tramonto è arrivato con il carretto carico di polvere di mattoni e coperto da sacchi, per nasconderlo».

«Non è possibile».

«Sì, perché ieri aveva delle piastrelle sotto il braccio, anche quelle avvolte in un sacco rotto. E si vedeva l’angolo».

«Allora… chissà!»

«Sì… me ne sono accorta anche quando aveva l’altro cantiere. All’inizio arrivava presto con il carretto, poi, quando stava per finire, molto più tardi, e sempre con il carretto coperto. Con quel materiale devono aver costruito una tettoia».

Taciturno, Joaquín ribatté: «Certo, così è facile costruirsi case e tettoie per fare invidia agli altri».

Poi non parlarono più. Cenarono in silenzio e l’occhio di Joaquín, commesso viaggiatore e piccolo proprietario, era immobile come l’altro di vetro.

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Io scrivo per essere felice

Nel suo recente Diccionario de autores latinoamericanos, frutto del lavoro di quindici anni, César Aira, il più prolifico e sorprendente scrittore argentino, non ha esitazioni e non ricorre nemmeno a una stilla d’enfasi nel definire Roberto Arlt, classe 1900, “il più grande romanziere argentino”. Del resto non è l’unico a pensarla così: prima di lui si erano dichiarati entusiasti ammiratori dell’opera di Arlt scrittori della statura di Juan Carlos Onetti, Julio Cortázar e Manuel Puig. Onetti, che gli era forse più affine per tematiche, ci ha lasciato questa enigmatica definizione dell’uomo: “Non so se sia stato un angelo, un figlio di puttana o un commediante, forse le tre cose insieme”. Cortázar dal canto suo, nella prefazione all’edizione delle Obras completas del suo connazionale, intimidito dal compito, annotava: “Se potesse leggere queste righe, Arlt mi spaccherebbe la faccia”. A testimoniare la persistenza di Arlt nelle lettere argentine, Ricardo Piglia, nel romanzo Respirazione artificiale(pubblicato da Serra e Riva, traduzione di Gianni Guadalupi), ne segnala l’importanza in un lungo capitolo dedicato al linguaggio letterario e sottolinea il passo decisivo da lui compiuto nel superare il baratro fra la lingua parlata e quella scritta: “Non c’è nulla che somigli allo stile di Arlt; non c’è nulla di altrettanto trasgressivo dello stile di Roberto Arlt”.

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Alla scoperta dell’iceberg Arlt

Bisognerà pure domandarsi prima o poi come mai la grande editoria italiana sia stata così ingenerosa o disattenta nei confronti dell’opera di Roberto Arlt: silenzio tombale sulla drammaturgia e sull’attività giornalistica1, fugaci apparizioni di una manciata di racconti2, sporadiche comparse dei romanzi: Il giocattolo rabbiosoI sette pazzi e I lanciafiamme;3 e fino a ieri nessuno si era mai accorto dell’esistenza di El amor brujo4 e non stiamo parlando di uno scrittore di “seconda fila”: per quanto discussa e perlopiù misconosciuta in passato, mentre l’autore era in vita, la figura di Arlt non ha cessato di crescere nella considerazione della critica, almeno a partire dall’appassionata difesa di Ricardo Piglia negli anni Settanta, fino alla “consacrazione” sancita da César Aira: «È il più grande romanziere argentino».5
Vorrei azzardare di sfuggita almeno due ipotesi sulla scarsa fortuna editoriale di Arlt in Italia: la sua estraneità al canone ufficiale argentino, rappresentato nella seconda metà del Novecento da Borges e Cortázar – per non parlare della sua distanza dal realismo magico –, e le sue posizioni politiche venate di individualismo anarchico, che non lo rendevano particolarmente appetibile per un’editoria di sinistra piuttosto ortodossa.

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Roberto Arlt, quello strano animale idiomatico

«Tutti gli scrittori che amiamo sembrano scrivere in una lingua straniera», parole di Proust che César Aira commenta così: «Credo che il senso della frase sia che, in realtà, ogni scrittore inventa una lingua straniera, che è il suo stile». Ecco dunque un buon motivo per amare Roberto Arlt, che in effetti scriveva in una lingua straniera, quella imparata in casa da bambino, dove né l’odiato padre prussiano né l’ipersensibile madre di origini italiane parlavano con scioltezza lo spagnolo.
Una lingua che era anche quella dei suoi compagni di disavventure – raccontate dal protagonista del suo primo romanzo, Il giocattolo rabbioso –, fatta di prestiti lessicali dall’italiano, ma soprattutto dai vari dialetti della penisola, dato che ben pochi dei numerosissimi emigrati italiani a Buenos Aires erano scolarizzati. Così troviamo termini come malandrinostrunssobagazza, e nelle sue cronache giornalistiche, le Aguafuertes de Buenos Aires, Arlt scrive a più riprese sull’origine italiana di diverse parole: furboberretínsquenun (per quest’ultima chiama in causa nientemeno che Dante). Non mancano nemmeno i francesismi; nei Lanciafiamme troviamo: mansardapoilus (per soldato semplice), e una puttana si rivolge al Ruffiano Melanconico con questa ingiuria: «Nom de Dieu, va t’en te faire enculer».

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Postfazione a Scrittore fallito

Roberto Arlt si vantava di aver venduto il suo primo racconto a otto anni, a un «distinto signore» del quartiere di Flores conosciuto in libreria, il quale gli aveva promesso in cambio una ricompensa ed era poi rimasto talmente impressionato da regalargli cinque pesos: «Quello è stato il primo denaro che ho guadagnato con la letteratura».
Di certo nell’insieme della sua opera la scrittura di racconti, insieme all’attività giornalistica, è stata di gran lunga l’attività più costante e feconda, ma rimane anche quella meno conosciuta e studiata, in patria e fuori. Finora ne sono stati rintracciati più di settanta, di cui solo ventiquattro erano stati riuniti in volume dall’autore: nove in El jorobadito e quindici in El criador de gorilas.

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