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La fortezza della solitudine

Quell’estate ebbe i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Nella casa che avevamo preso in affitto papà poteva fare il barbecue più frequentemente, però cenavamo fuori meno spesso, e in quel paese quasi non c’era dove cenare fuori. Non c’erano videogames né biciclette a noleggio, né tante gelaterie, né ragazze che regalavano campioni di creme o abbronzanti, ma era tutto più economico e tranquillo, e la mamma diceva che papà aveva bisogno di riposare sul serio e che non potevamo spendere molto.
La spiaggia era un deserto immenso. Nessuno ti calpestava o ti riempiva di sabbia, non ti piantavano gli ombrelloni vicino, e si poteva giocare a pallone, anche se quasi sempre dovevo giocare da solo. A papà e mamma non piaceva andare alla spiaggia tutti i giorni, ma in quel posto mi lasciavano andare da solo e io potevo esplorare a mio piacimento, con la cartella in spalla, quel poco che c’era da esplorare.

Non ricordo il nome del paese, forse perché la mia memoria lo ha cancellato nell’ansia di cancellare la colpa. Ricordo ampi tramonti con il mare che era pura luce, e il molo dei pescatori e l’unico cinema del paese, che si chiamava Gran Fenix e aveva un’unica maschera che vendeva anche dolciumi. E ricordo mamma mentre leggeva un romanzo in spiaggia, e papà che accendeva il fuoco per il barbecue, e la famiglia che aveva in affitto la casa accanto. E ricordo un’edicola e le poche vie asfaltate, e le notti di luna, e pur ricordando tante cose non ricordo l’unica che vorrei ricordare, un semplice sorriso. Ricordo che era un sorriso, ricordo il momento e il posto, ma se tento di rivederlo nella mia memoria, di evocare il disegno di quel sorriso, vedo solo un’ombra, e tutto attorno la spiaggia e il mare come un pianeta deserto.
Quell’estate vi furono giornaletti, lunghi pomeriggi a pescare senza pescare e un paio di film, ma non vi fu chiasso, e ogni volta che arrivo in un posto tranquillo e vasto è come se arrivassi di nuovo a quell’estate, dove so che c’è un sorriso rivolto a me che non potrò più vedere.
In un altro posto, uno di quei posti rumorosi e affollati, non avrei conosciuto il Biondo. Avrei avuto altri amici, sarei andato con loro alla spiaggia, al cinema e a giocare, e forse dopo le vacanze ci saremmo scritti o sentiti per telefono. Non rividi più il Biondo, e non gli spedii mai una lettera, forse perché temevo che sapesse e volesse accusarmi. In ogni caso era una paura ingiustificata, perché il Biondo non mi avrebbe mai accusato, neanche se avesse saputo che cos’era successo.
Conobbi il Biondo al molo dei pescatori, l’unica costruzione che si vedeva in tutta la spiaggia, a parte un muraglione diroccato e coperto di muffa su cui le onde si infrangevano con violenza, come se volessero piegare ancor più i ferri arrugginiti che spuntavano dal cemento. Lo chiamavano il Biondo, ma non so se era Biondo. Ricordo che aveva i capelli chiari, lunghi e sporchi, e qualche ciuffo legato con lo spago che lui usava come promemoria. Questo è per ricordarmi di comprare il pane al ritorno, diceva, toccandosi un ciuffo; e questo è per ricordarmi di comprare il latte.
Io andavo al molo di mattina, camminando lungo la spiaggia, ma il giorno in cui conobbi il Biondo ci andai di pomeriggio, a un’ora in cui c’erano solo vecchi che guardavano il mare come se guardassero la morte. Mi piaceva appoggiarmi alla ringhiera e guardare il mare, ma non per guardare la morte. Io ero il Principe Coraggioso, e dalla costa di Thula scrutavo il mare brumoso sognando la corte di re Artù. Oppure ero Darth Vader, e avvolto nella mia corazza nera guardavo un pianeta distrutto dal ponte del mio incrociatore stellare. Oppure ero Superman, e dalla Fortezza della Solitudine, il mio rifugio al Polo, guardavo la distesa di nevi, il mantello ondeggiante al vento.
«A te piace pescare?» mi disse il Biondo, che pescava appoggiato alla stessa ringhiera.
«No» gli dissi, un po’ infastidito perché in quel momento ero Nippur di Lagash e con un gruppo di spartani o macedoni mi preparavo a resistere contro invasori egiziani provenienti dal mare. Il Biondo aveva panni sporchi e cenciosi, proprio come i miei macedoni o spartani.
«Neanche a me» disse il Biondo. «Pescare è noioso.»
Intrigato, gli indicai con un gesto la canna.
«Ti spiego» disse il Biondo. «Tu perché vieni?»
«Io? A guardare l’acqua.»
«Anch’io vengo a guardare l’acqua» disse lui. «Però a questi qui non piace che la gente venga a guardare l’acqua» aggiunse a bassa voce. «Si credono i padroni del molo.»
Guardai i vecchi che pescavano lì attorno. Sembravano abbastanza pacifici, e non facevano caso a noi.
«Per questo io pesco senza pescare» disse il Biondo. «Ho la canna, vedi? però sotto il galleggiante non c’è niente. Né amo né esca.»
«E nessuno se ne accorge?»
«No. Certo, bisogna saper fingere. Quando ti domandano se ne prendi, dici di no. C’ho pensato su bene. Così ti lasciano guardare l’acqua tranquillo. Il tuo vecchio non ha una canna?»
«Credo che in casa ce ne sia una, ma lui non la usa.»
«Porta la canna e t’insegno a pescare senza pescare.»
Non disse nient’altro, e tutt’e due rimanemmo a guardare l’acqua. Io avevo temuto che il Biondo fosse invadente, ma lui sapeva davvero guardare l’acqua, e se volevi essere il Principe Coraggioso o Darth Vader o Superman ti lasciava in pace.
Quella sera domandai a papà se potevo usare la canna che c’era nel capannone.
«Strano che a te venga in mente di pescare» disse papà.
«È per pescare senza pescare» gli spiegai. «Ho un amico che vuole insegnarmi.»
«Ah» disse papà. E mentre cenavamo disse alla mamma: «A tuo figlio piacciono gli sport violenti.» E le raccontò della canna, ridendo e accarezzandomi i capelli. Anch’io risi, anche se non sapevo perché.
Il Biondo ebbe la pazienza d’insegnarmi a pescare senza pescare. Imparai a fingere di mettere l’esca, a gettare la canna all’indietro e lanciare il galleggiante in acqua, a rimanere seduto e a dire non succede niente, se qualcuno domandava come andava la pesca, anche se in genere nessuno domandava mai niente. Mentre pescavamo senza pescare, il Biondo volle sapere se avevo la ragazza.
«No» gli dissi. «Ce l’avevo a scuola. Ne avevo molte a scuola.»
«Che classe fai?»
«Vado in settima. E tu?»
«Io ho già finito la scuola.»
«No, dico se hai la ragazza.»
«Io? Cosa me ne faccio di una ragazza? Sono già stufo delle donne.»
Rimanemmo un momento a guardare l’acqua senza dire nulla.
«Davvero sei stufo delle donne?» gli domandai alla fine.
«Prova a immaginare» disse. «In casa mia sono tre, la mia vecchia e le mie sorelle.»
«Ma è diverso.»
«Non vedo in cosa è diverso» disse il Biondo. «Il mio vecchio dice che le donne sono tutte uguali.»
Allora gli parlai di lei. Lei era una ragazzina della mia età che vedevo a volte in spiaggia. Aveva capelli neri e occhi scuri, però non avevamo mai parlato.
«Lei non è uguale a tutte le altre» gli assicurai.
«E tu cosa ne sai, se non le hai nemmeno parlato?»
«Lo so. E neanche la mamma è uguale a tutte le altre.»
Il Biondo mi guardò scettico e scosse la testa. Quella sera ci separammo un po’ arrabbiati.
Il giorno dopo, per non parlargli, portai al molo dei giornaletti. Ci andai più presto, per arrivare prima di lui e non essere costretto a fargli il dispetto di sedermi lontano. Ma quando arrivai c’era già: anche lui era venuto più presto. Andai da una parte e dall’altra come per cercare un posto libero. Alla fine mi sedetti vicino al Biondo, ma un po’ più lontano del giorno prima. Mi misi a pescare senza pescare e aprii un giornaletto.
«Me ne presti uno?» disse il Biondo.
Gli dissi di sceglierne uno e diede un’occhiata alla pila.
«Non ne hai di comici?» domandò.
«A casa. Questi sono tutti di Superman. Se un giorno porti i tuoi, possiamo far cambio.»
«Io non ne ho» disse il Biondo. «Però l’edicola vicino al Gran Fenix vende quelli usati, e a volte l’edicolante me li presta. È mio amico. Un giorno ti ci porto, così li presta anche a te.»
Si mise a leggere, e ogni tanto tutt’e due guardavamo l’acqua. Ci fermammo più a lungo del giorno prima. Mamma e papà passarono sul molo mentre facevano un giro e mi diedero il permesso di restare fino a sera. Gli presentai il Biondo.
«Come va la pesca?» gli domandò papà strizzandomi l’occhio.
«Non succede niente» disse il Biondo.
Quando fu sera vedemmo sfrecciare una stella cadente.
«L’hai vista?» disse il Biondo.
«Sì. Bisogna esprimere tre desideri, ma io non ho fatto in tempo.»
«Io chiedo sempre che non cadano più» disse il Biondo.
«Perché?»
«Se cadono tutte le stelle, nessuno ci vedrà più di notte. E pensa se un giorno cade la luna.»
«Non sono stelle» gli dissi. «Mio papà mi ha spiegato che sono meteoriti.»
«Come quelle di Superman» disse il Biondo.
«Sì, come quelle di Superman.»
«Quando lui le distrugge perché non cadano sulla gente, esprimerà tre desideri?»
«Perché dovrebbe esprimere tre desideri, se è Superman?»
Un’altra stella cadente.
«Qui ne cadono di più che in città» dissi al Biondo.
«Non è che ne cadono di più. È che si vede meglio il cielo. Hai espresso i tre desideri?»
Ne avevo espresso uno solo, tre volte, e il giorno dopo si avverò.
Al mattino venne a farci visita la famiglia che affittava la casa accanto. Mentre papà e il vicino preparavano il barbecue, e mamma e la vicina si scambiavano ricette e i figli del vicino correvano nel giardinetto, io me ne andai alla spiaggia. Per fortuna i mocciosi non vollero venire con me.
Quando arrivai in spiaggia, anche lei era sola, seduta su una sdraio. I genitori stavano facendo il bagno. Ammirai i suoi capelli neri e i suoi occhi neri. All’improvviso si girò verso di me e mi sorrise. Sconcertato, guardai dietro di me temendo che sorridesse a un’altra persona, e lei dovette prenderlo come uno sgarbo perché non mi guardò più. Mi sedetti sulla mia sdraio, vergognandomi un po’ e pensando di avvicinarmi per parlarle. Quando alla fine mi ero deciso, i genitori uscirono dall’acqua e fui intimidito.
Dopo qualche minuto non potevo più sopportare la vergogna. Raccolsi la mia cartella e camminai lungo la spiaggia fino a un posto isolato dove lei non potesse vedermi.
Mi distesi al sole pensando a lei e al suo sorriso, arrabbiato con me stesso. Il desiderio si era avverato, ma io l’avevo sprecato malamente. In quel momento udii un ronzio nell’aria. Aprii gli occhi e vidi che era Superman. Lo riconobbi subito per la «S» sul petto.
«Ciao» disse Superman.
«Ciao.»
«Ho letto sul “Pianeta” che una grossa meteorite di kriptonite è caduta proprio in questa zona.»
Mi ricordai delle stelle cadenti.
«La kriptonite può uccidermi» spiegò Superman. «Non voglio che finisca in cattive mani, perciò devo trovarla e liberarmene. Non hai visto niente?»
«No» dissi. «Non ho visto niente.»
«È una pietra verde, luccicante.»
«Lo so com’è la kriptonite» dissi «ma non ho visto niente. Se vuoi te la cerco.»
«Mi faresti un grosso favore» disse Superman, e alzò gli occhi al cielo. Guardai nella direzione in cui guardava lui ma non vidi nulla, anche se udii il rumore di un jet di linea.
Mi infastidì che guardasse da un’altra parte, comunque mi offrii di aiutarlo.
«Me ne occupo io e ti avviso» gli dissi. «Quando torni?»
«Domani è domenica» disse Superman pensieroso. «Domani sera, qui. Adesso, quell’aereo ha dei problemi.»
«Lavoro per Superman» sbadigliai.
«Esatto» disse Superman risalendo in aria. Presto fu solo una macchia blu e rossa nel cielo.
Ero contento di aver visto Superman, anche se mi infastidiva un po’ che fosse venuto da Metropolis solo per interesse, e non per vedere me. Mi consolai pensando che almeno avrebbe messo in salvo l’aereo. Avevo tempo per cercare la kriptonite fino a domenica sera, e così me ne andai a mangiare l’arrosto.
Quando arrivai, papà conversava con il vicino accanto alla griglia. Dicevano che in paese era arrivato un circo e mi domandarono se volevo andarci domenica sera. Il vicino mi diede un foglietto giallo con le figure di un pagliaccio e di un elefante. 

 

Grande Circo Americano
Pagliacci * Bestie feroci * Leoni
Grandi Attrazioni!!!

 

«I leoni non sono bestie feroci?» domandai a papà.
«Proprio così» disse papà. «Ma il circo non è grande, e non è neanche americano. Perché non andiamo tutti domani?»
«Domani non posso venire» dissi, ricordandomi dell’appuntamento con Superman.
«Come sarebbe che non puoi?»
«Voglio dire che non mi va. Il circo mi annoia.»
«Ma a me diverte» disse papà. «Con che scusa ci vado se tu non vieni?»
«Che peccato» disse il vicino. «Potevamo approfittare per andarci tutti insieme con i bambini».
Gli dissi che ci andassero lo stesso, che io sarei andato in spiaggia.
«A pescare senza pescare» disse papà. «Per questo non puoi venire.»
«Che peccato» ripeté il vicino.
«Non importa» disse papà. «Noi andiamo lo stesso. A me piacciono i circhi piccoli. Mi fanno tristezza.»
La moglie del vicino disse che per essere tristi c’erano già fin troppi motivi e che non era necessario pagare biglietti d’ingresso.
«Uno è amareggiato, non triste» disse papà. «È molto diverso. La tristezza può essere bella.»
«Guarda il grande» disse mamma. «Le cose che dice per giustificare il fatto che lui vuole andare al circo e il piccolo no.»
«Lì almeno gli animali stanno in gabbia, e non al governo» disse il vicino.
Allora incominciarono a discutere di politica e non si parlò più del circo né del pescare senza pescare. I grandi s’ingegnavano sempre per essere noiosi.
Quella sera me ne andai al molo dei pescatori a pescare senza pescare con il Biondo, ma non gli raccontai del sorriso e nemmeno di Superman. Ogni tanto davo un’occhiata dal molo per vedere se scoprivo la kriptonite, ma non accadde. Qualcuno aveva preso un grosso pesce-re e lo mostrava orgoglioso. Tutti lo festeggiavano, perché la verità è che lì non c’era una gran differenza tra pescare e pescare senza pescare. In genere non si prendeva niente, perciò il pesce-re era un vero e proprio avvenimento. Il Biondo disse che conveniva avvicinarsi e fingere curiosità, altrimenti ci avrebbero presi per infiltrati, avrebbero scoperto il nostro segreto e non avremmo più avuto pace sul molo. Seguii il suo consiglio, anche se avevo notato che altri pescatori si facevano i fatti loro senza avvicinarsi a quello del pesce-re. Mi dispiacque vedere il pesce che boccheggiava sanguinante.
«Non mi piace vederli morire» dissi al Biondo. «Non mi piace che muoiano.»
«Niente muore del tutto, perché tutto è vivo» disse il Biondo. «Un animale muore, qualcuno muore, ma in fondo tutto è vivo, capisci?»
Gli dissi che capivo, ma non capivo affatto. Ci fermammo fino a tardi. Il molo illuminato dalle lanterne dei pescatori fluttuava nell’oscurità come un vascello fantasma. Quella notte non vedemmo stelle cadenti, e pensai che forse era perché io non meritavo che si avverassero i miei desideri.
La domenica mattina piovve e rimasi con papà mentre leggeva il giornale. Papà mi domandò se davvero non volevo andare al circo. Non seppi che cosa rispondergli, perché non avevo molta voglia di uscire a cercare la kriptonite sotto la pioggia. Papà raccontò a mamma che un aereo passeggeri di linea era stato costretto a compiere un atterraggio d’emergenza a Mar del Plata, ma che fortunatamente non c’erano stati danni né vittime. Guardai la foto dell’aereo fermo sulla pista, ma non dicevano niente di Superman e mi sembrò un’ingratitudine. A mezzogiorno il cielo si schiarì e confermai che non sarei andato al circo.
«E così noi bambini andiamo al circo e il signore va a pescare» disse mamma.
«A pescare senza pescare» disse papà. «E ci porterà un non pesce per la cena.»
Nel pomeriggio incominciai a percorrere la spiaggia cercando la kriptonite. Non trovai nulla e rimasi seduto lì aspettando Superman. Decisi di non andare al molo dei pescatori, perché dovevo almeno avvisarlo che non avevo trovato niente e che avrei continuato a cercare. Quando cominciò a far buio, pensai che Superman non sarebbe venuto. Mi arrabbiai. Credevo che mantenesse sempre le sue promesse.
Tornai a casa. Per strada incontrai lei con la sua famiglia. Erano sicuramente rimasti fino a tardi in spiaggia per approfittare del sole dopo la mattinata piovosa. Lei mi guardò, ma un po’ perché ero abbattuto un po’ per l’oscurità non riuscii a vederle bene il viso. Quando arrivai a casa, c’erano i vicini e i figli dei vicini. I bambini gridavano, ridevano e strillavano parlando del circo.
«Non ti sei perso granché» disse per consolarmi la mamma, che aveva visto senz’altro il mio muso lungo e aveva pensato che mi fossi pentito di non essere andato con loro. Ma i bambini parlavano solo del circo.
«C’erano i pagliacci» disse uno.
«E una tigre africana» disse l’altro.
«Un leopardo» disse papà. «In Africa non ci sono tigri.»
Il piccolo lo guardò un po’ scettico.
«Come sarebbe che non ci sono tigri in Africa» disse.
Papà mi domandò se volevo andare a fare due passi. Accettai.
«C’è qualcosa che non va?» disse.
«Cosa dovrebbe esserci?» risposi.
Andammo a fare un giro in paese, e per strada i bambini parlavano solo dei leoni, delle tigri e dei pagliacci. Papà e mamma e i vicini parlavano di cinema, di un film che si chiamava La strada o qualcosa di simile. Mi ricordai del manuale Estrada e pensai che non volevo tornare a scuola.
Quando arrivammo in paese, papà mi diede i soldi per prendere il gelato in un chiosco. L’uomo del chiosco era calvo. Lo guardai attentamente, pensando che forse era Luthor che era venuto a cercare la kriptonite per uccidere Superman. Quando mi guardò negli occhi vidi che non era Luthor. Aveva la faccia da bonaccione, o da idiota.
Arrivammo camminando fino al molo mentre gustavamo il gelato. Quei mocciosi mi avevano stordito con le bestie feroci e il circo. Quando passammo davanti al Gran Fenix dissi che avevo voglia di andare alla toelette ed entrai nel cinema. Uscendo dalla toelette vidi nell’atrio un uomo con gli occhiali che guardava le foto di un film. L’uomo si avvicinò. Mi risultava una faccia nota.
«Ciao» disse «mi hanno mandato dal “Pianeta” per scrivere un pezzo su questo posto. A Metropolis non è molto conosciuto.» E strizzandomi l’occhio aggiunse: «E Superman mi manda a chiederti se hai visto qualcosa.»
«Lei è Clark Kent» dissi.
«Proprio lui» disse timidamente Clark Kent.
«Si fermerà molto?»
«Ho già visto tutto quello che dovevo vedere. Me ne vado stasera.»
«Ha visto il molo dei pescatori?»
«Certo che l’ho visto. Qualche novità per Superman?»
«Gli dica che non ho trovato niente, ma continuerò a cercare.»
«D’accordo. Lui passerà in spiaggia domani pomeriggio.»
«Lo aspetto là. Come sta Luisa, Clark?»
«Luisa?»
«Luisa Lane.»
Clark Kent arrossì, balbettò qualcosa e s’infilò nella toelette. Io mi misi a correre per raggiungere papà, mamma e i vicini, che erano già nei pressi del molo.
«La prossima settimana danno L’Impero colpisce ancora» dissi a papà. In quel momento vidi che il Biondo veniva dal molo con la canna in spalla. Quando ci incontrammo, fece l’indifferente.
«Quello non è il tuo amico?» domandò la mamma.
«Sì, il Biondo.»
Mamma salutò il Biondo con un gesto della mano. Lui fu sorpreso, rispose al saluto e continuò per la sua strada. Siccome i piccoli mi annoiavano, approfittai della domanda della mamma per intrufolarmi tra i grandi e parlare di cinema con loro, però parlavano di film proibiti che io non potevo né volevo vedere.
La mattina del lunedì continuai a cercare la kriptonite ma senza trovare nulla. Nel pomeriggio tornai alla spiaggia per aspettare Superman. Non sapevo se mi era passata l’arrabbiatura o no, perché in realtà non sapevo se lui avrebbe mantenuto o no la sua promessa di venire. La gente con una personalità segreta era complicata.
Mi distesi al sole senza troppe speranze, ma quel pomeriggio venne.
«Non ho trovato niente» gli dissi quando lo vidi scendere.
«Che sfortuna» disse Superman. «Ma salterà fuori. Dev’essere da qualche parte.»
Come ringraziamento per la mia collaborazione si offrì di portarmi in qualsiasi posto avessi scelto.
«Davvero?» domandai.
«Davvero. Che posto ti piace?»
«L’Africa. Voglio vedere delle bestie feroci.»
Superman mi prese in braccio e in un batter d’occhio eravamo in aria. All’inizio chiusi gli occhi perché avevo paura. Avevo viaggiato in aereo senza aver paura, ma questa volta era diverso.
«L’Africa si vede nera da lontano?» domandai.
«No» rise Superman. «Si vede verde, o gialla, o marrone.»
«Come nel mappamondo che abbiamo a scuola» dissi. Il mare però non si vedeva come nel mappamondo, ma come una grande prateria ondeggiante, verde, grigia e azzurra. Per distrarmi, e per cortesia, feci a Superman una domanda personale.
«Non ti addolora che i tuoi genitori siano morti a Kripton?»
«Niente muore del tutto» disse Superman. «In qualche modo, tutto è vivo.» Stavo per dirgli che il Biondo la pensava allo stesso modo, ma notai che non sorrideva più e pensai che non gli andava di parlarne. Inoltre, era possibile che il Biondo l’avesse letto in qualcuno dei miei giornaletti, anche se io non avevo visto quella frase.
Quando il viaggio incominciava a piacermi, arrivammo in Africa. In Africa c’era una famiglia di leoni. Erano annoiati, distesi al sole, e scacciavano le mosche con la coda. Mi stancai di loro e volli vedere un leopardo. Superman cercò con la sua vista telescopica e mi portò a vedere un leopardo rannicchiato in una macchia. Il leopardo aggredì una gazzella e l’atterrò con una zampata. Non mi piacque il leopardo, e rimpiansi di non essere andato al circo la sera prima. Lì le bestie feroci dovevano essere più simpatiche. Anche il sole sembrava una secchiata di sangue sull’orizzonte. Domandai a Superman se conosceva Tarzan.
«Tarzan non esiste» disse Superman. «È una fantasia.»
«Andiamocene dall’Africa» borbottai. «Ho già visto tutto quello che c’era da vedere.»
Di nuovo sorvolammo l’Atlantico. Alle nostre spalle il sole era bianco e luminoso, non rosso e gonfio come quello in Africa. Superman mi lasciò in spiaggia.
«È urgente trovare quella kriptonite» mi disse. «Torno mercoledì mattina.»
«D’accordo» dissi.
Lo guardai andarsene in volo mentre mi avviavo verso casa. Arrivai che annottava.
«Siamo stati in spiaggia e non ti abbiamo visto. Dov’eri finito?» disse papà.
«Non dire al molo, perché siamo passati anche di lì» disse mamma.
Il martedì trascorsi ore cercando invano la kriptonite. Poi andai a cercare il Biondo a casa. Temevo di perdermi perché non avevo l’indirizzo preciso, ma il Biondo mi aveva descritto bene la casa e non ce n’erano molte simili. Era una casa grande e povera, con un giardino vasto e trascurato, pieno di cani, gatti e tartarughe. Non c’era campanello e battei le mani per chiamare. Mi accolse una ragazza giovane, una delle sorelle del Biondo.
«Credevo che eri arrabbiato» disse il Biondo quando uscì.
«No, perché dovevo essere arrabbiato.»
Il Biondo si strinse nelle spalle.
«Vado a cercare la canna» disse. Quando uscì di nuovo, una voce di donna anziana lo chiamò da dentro. Il Biondo rientrò e uscì legandosi uno spago ai capelli.
«La vecchia vuole che le compri un chilo di pane» mi spiegò. «Un chilo di pane, un nodo. Mi accompagni?»
Quel pomeriggio pescammo senza pescare più silenziosi del solito. Stavo per raccontare al Biondo che Superman la pensava come lui, e per domandargli se aveva trovato la frase in uno dei miei giornaletti. Poi pensai che forse le cose stavano al contrario. Forse la sera prima Clark Kent aveva intervistato il Biondo sul molo e lui gli aveva detto quella frase. Preferii non raccontare nulla.
«Sai una cosa?» mi disse il Biondo.
«Cosa?»
«Avevi ragione. La tua vecchia è diversa.»
«Sì?»
«Sì. E a pensarci bene, anche la mia. E così, probabilmente anche questa ragazza che dici tu è diversa, e non è come tutte le altre.» Quella notte vedemmo una stella cadente ed espressi tre desideri: trovare la kriptonite, incontrare di nuovo la ragazza, e che lei mi sorridesse di nuovo.
Il mercoledì andammo presto in spiaggia. Papà mi propose di correre sulla sabbia mentre mamma prendeva il sole, e incominciammo a trotterellare. Ci allontanammo di un buon tratto e quando ci avvicinammo al vecchio muraglione vidi uno scintillio verde tra le macerie. Prima l’avevo scambiata per una chiazza di muschio nel cemento sbrecciato, o avevo confuso lo scintillio con il riverbero del sole sulla schiuma delle onde. Tornammo trotterellando fino all’ombrellone, ci mettemmo in acqua e imbrattammo di sabbia la mamma che ci rincorse fin nell’acqua ridendo e protestando. Tutti e tre facemmo il bagno insieme. A metà mattina papà e mamma vollero andarsene. Il sole picchiava.
«Io resto qui» dissi. «Voglio tornare in acqua.»
«Non ti sei stancato di nuotare?» disse papà.
«Tra un’ora è pronto il pranzo» disse mamma.
Quando se ne andarono mi avviai verso il muraglione in rovina. Mi avvicinai alle macerie e trovai quello che speravo, una pietra enorme e verde, per metà nascosta dalle onde e per metà incastrata nel cemento sbrecciato. Ero scalzo e una sporgenza appuntita mi aprì un taglio nel piede mentre scendevo dal muraglione. Bagnai il piede nell’acqua in modo che il sale contribuisse a cicatrizzare la ferita. Il luccichio della kriptonite mi faceva un po’ paura, ma ricordai che era pericolosa solo per Superman e quelli come Superman. Era una vera fortuna non essere nati a Kripton. Mi fermai ad aspettare, seduto sulla pietra verde perché nessuno la vedesse.
Mi sentivo orgoglioso, ma ero anche infastidito perché il sole picchiava e avevo il piede ferito e Superman era in ritardo. Nel giro di un’ora sarebbe stato pronto il pranzo, e io avevo fame dopo tanto correre e nuotare, e l’Africa non mi era piaciuta, e mi ero perso il circo. Inoltre, quella mattina avevo visto sul giornale che una corriera aveva avuto un incidente sulla strada numero due, e Superman non aveva fatto nulla per impedirlo.
Superman arrivò che era mezzogiorno, la schiena mi scottava e mi gocciolava sudore dai capelli. Vidi che sorvolava la spiaggia cercandomi. Atterrò con eleganza sulla punta del muraglione e si avvicinò lentamente, il mantello al vento.
«Ciao» disse sorridendo e strizzandomi l’occhio. «Stai ricordando l’Africa?»
«Odio l’Africa» risposi.
«Hai visto qualcosa?» domandò Superman con un tono d’impazienza che mi infastidì.
«Ci sono seduto sopra» dissi seccato, e mi alzai.
A Superman gli cambiò la faccia e gli si afflosciarono le gambe. Stramazzò ai piedi del muraglione e mi chiese di allontanare la kriptonite. Si vedeva che era sempre più debole.
«Io non posso spostare questa pietra» gli dissi. «È molto pesante per me, ed è incastrata. E poi mi fa male il piede.»
Mormorò qualcosa, ma il rumore delle onde mi impedì di udire. Inoltre ero un po’ stanco, così presi la via di casa e non mi voltai a guardare nemmeno una volta. Quando arrivai all’altezza della casa, vidi la ragazza sulla sdraio, con i genitori. La guardai con la coda dell’occhio e lei mi sorrise, ma io voltai la faccia perché mi vergognavo che mi si vedessero le lacrime.
Durante il pranzo assaggiai appena un boccone.
«Che strano» disse papà. «Con tutte quelle nuotate.»
«Ti ha fatto male il sole» disse mamma. «Vieni a fare la siesta con me. O pensi di tornare in spiaggia?»
«No» dissi. «Non voglio tornare in spiaggia.» Ma non ebbi il coraggio di raccontarle perché.
Alla solita ora, comunque, andai al molo a pescare senza pescare con il Biondo. Temevo che qualcuno mi avesse visto sul muraglione con Superman, e aspettavo che il cadavere affondasse nell’acqua. Nei film avevo visto che l’acqua si portava sempre via i corpi, ma forse con Superman sarebbe stato diverso. Dopo tutto era di un altro pianeta. Forse sarebbe svanito o si sarebbe dissolto.
«Tu credi davvero che niente muore del tutto?» domandai al Biondo.
«Che ne so io» disse il Biondo. «È una cosa che mi diceva la mia vecchia quando mi morì un gattino. Perché lo domandi? Che cos’hai?»
«No, niente.»
«Qualcosa hai.»
«Perché?»
«Perché piangi senza piangere» disse il Biondo.
Quel pomeriggio un temporale impressionante oscurò il cielo fino all’orizzonte. Ci riparammo con una sdraio e ci fermammo a guardare. Ricordo che i lampi sembravano anguille che nuotavano nelle nubi nere, e dopo il temporale l’arcobaleno sembrava un grande ponte che forse arrivava in Africa. Ricordo che trovarono uno squalo morto sulla spiaggia, e quando la gente si stancò dello squalo noi rimanemmo a fargli compagnia perché era morto. Ricordo che regalai al Biondo tutti i miei giornaletti. Ricordo che la ragazza se ne andò presto, e non seppi nemmeno il suo nome. E ricordo che vidi molte stelle cadenti, ma non espressi mai più un desiderio. 

 

(Il racconto è stato pubblicato sul n. 1 della rivista (cartacea) Carmilla, nel novembre del 1998)

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